DAI MOSTRI SACRI AI MOSTRI E BASTA

Mostro sacro. Secondo una definizione da dizionario, si definisce in questo modo una persona che ha raggiunto livelli insuperabili in un determinato campo, ammirato per le sue doti. E di mostri sacri in Italia ne abbiamo avuti tanti, ed anche senza voler mettere mano a nomi universalmente noti come Leonardo o Michelangelo o Verdi, negli ultimi 60 anni abbiamo raggiunto vette eccelse. Come non ricordare quando personaggi del calibro di Alberto Sordi comparivano in televisione accanto a Mina, dando vita a duetti memorabili, tenendo incollate allo schermo milioni di persone. E quando Sanremo era globalmente noto, un Modugno che allargava le braccia intonando Volare era imperdibile, trasmetteva emozioni. Emozioni, già, le stesse che cantava Battisti, le stesse che smuoveva Gassman, le identiche lasciate da De Chirico o Fontana, le emozioni trascritte da Moravia, Brancati, Camilleri. Perché quelle icone andavano oltre i ruoli che interpretavano, le parole che recitavano, le scene che scrivevano. Erano capaci di raccontare il bene e il male, ma non spacciavano il secondo per il primo, come ineluttabile verità, indeterminabile conclusione di una società malata. Alcuni ricorderanno Storia di Piera, o una pellicola che ha mostrato una realtà disfatta come quella della tossicodipendenza, quel “Amore tossico” dove il sole bruciava i tossicodipendenti alla ricerca di una dose tra Roma e Ostia. Pasolini raccontava delle borgate, della decadenza, dei ragazzi di vita, ma non dava giudizi, non insultava le scelte, se non quelle scellerate di una politica disattenta. Mostri sacri, per la capacità di raccontare e raccontarsi senza dare colpe agli altri, ritagliando spunti di realtà ma con la capacità di elaborarli oltre terminologie minime. Ma il tempo, di solito galantuomo, ha condotto le nuove generazioni verso una omologazione sterile e rabbiosa, in un intento iconoclasta inconscio, distanti anni luce da provocatori come Piero Manzoni o Rino Gaetano o ancora Lidia Ravera e Marco Lombardo, che con il loro “Porci con le ali” provarono, nel 1977, a distaccarsi da una società in transito dalla giacca e cravatta ai jeans ed alle manifestazioni per il diritto al divorzio ed all’aborto. Mostri sacri, una definizione che lascia ormai il sapore delle Madeleine de Proust, evocando in noi ricordi di un passato che affiora sempre più a fatica, specialmente leggendo le non epiche frasi di chi viene esposto all’attenzione del pubblico in eventi nazionali come il Festival di Sanremo. Perché il soldo ha sempre vinto sul buon gusto e sulla cultura, ma mai come in questi ultimi anni si è assistito a un depauperamento spirituale e culturale talmente violento ed intenso da non consentire difese, in particolar modo da parte di chi dovrebbe in qualche modo vigilare sulla diffusione di contenuti visivi e verbali. Non si tratta della lotta tra vecchio e nuovo come avvenuto in ogni epoca storica, ma di una vera e propria sottomissione volontaria alle logiche commerciali e monetarie da parte di soggetti che dovrebbero essere appendici di uno stato, di una nazione, da parte di chi dovrebbe essere espressione di servizio pubblico e non di vetrina per case discografiche, che oltretutto non investono su talenti ma semplicemente su chi è più apprezzato dalla massa. Non è giusto dirigere i gusti del pubblico, ma neanche accettare supinamente qualsiasi gradimento espresso tramite internet, perché oggi si tratta di cantanti dai testi scellerati ed incitanti alla violenza, un domani si potrebbe trattare di chi ripudia le leggi o di chi inneggia all’intolleranza. Il sonno della ragione genera mostri, e i mostri sacri sono solamente un ricordo.