RICORDANDO LA MATTINA DEL 13 APRILE 1975 A BEIRUT
La mattina del 13 aprile 1975, in una piccola cappella posta al piano terra di un palazzo di quattro piani ad Ain el remmaneh, sobborgo sud orientale di Beirut,alcune persone festeggiano il battesimo del figlio di Joseph Abou Assi, un militante dei Falangisti, formazione politico militare della destra cristiana nazionalista. Nei momenti in cui tutti escono festanti dalla piccola chiesa, una macchina con a bordo alcuni fedayin palestinesi passa di lì, proprio dove tuttora c’è una piccola rotonda. I militanti palestinesi stanno verosimilmente andando ad una manifestazione a Tal El Zaatar, a due chilometri da li, e – come da consuetudine sopratutto in quegli anni – dalla macchina si sporgono in due-tre per cimentarsi nel “baroud”, ossia l’usanza di sparare in aria coi fucili per festeggiare. Già in strada, però, ci sono gli uomini armati della sicurezza di Abou Assi, che si stanno occupando di deviare il traffico di fronte alla chiesa. Ne nasce subito un alterco, uno dei tanti di quel periodo: i fedayin si rifiutano di cambiare strada, provano a proseguire, finché un falangista non apre il fuoco, uccidendo il loro autista. Il quartiere si sveglia, sono circa le 9 del mattino ma nessuno si preoccupa oltre il livello di guardia: “è il Libano”, penseranno molti, e ogni tanto ci scappa il morto per futili motivi. I palestinesi lasciano immediatamente l’area, rimpiazzati dall’arrivo di una calma precaria, sinistra, incandescente. Un’ora dopo, mentre gli avventori del battesimo e i miliziani che sono con loro stazionano sempre di fronte alla stessa chiesa, arrivano due macchine scure. Attaccati sulla carrozzeria hanno – in maniera che tuttora risulta un po’ bizzarra – visibilissimi adesivi dell’OLP. Escono quattro uomini, che improvvisamente aprono il fuoco, uccidendo quattro persone. Tra queste c’è anche lo stesso Joseph Abou Assi, al quale negli anni successivi, come si vede nella terza foto, verrà intitolata la via e una lapide commemorativa (dove dai suoi sodali viene definito “primo martire della guerra civile”). Muoiono anche tre guardie del corpo, che peraltro non sono guardie del corpo qualunque: sono uomini della scorta personale di Sheikh Pierre Gemayel, za’im assoluto dei Falangisti, nonché padre di Bashir, che nel 1982 sarà presidente del Libano per meno di un mese, prima di essere assassinato. Pierre Gemayel ha preso parte ai festeggiamenti del battesimo, e quando iniziano gli scontri a fuoco riesce a scappare. I due veicoli da cui erano partiti i colpi riescono a lasciare l’area sotto il fuoco dei rimanenti miliziani, e nel frattempo Ain el Remmaneh piomba in uno strano clima di convivenza tra caos e commozione: arrivano decine di uomini armati, tra i quali ci sono sia dei falangisti che membri delle Al Numour al libralyin – le “tigri dei liberali” -, fondate nel 1968 da Camille Chamoun e guidate da suo figlio Dany. I miliziani si dividono gli incroci del sobborgo, dove iniziano a mettere in piedi dei posti di blocco: alle macchine che fermano chiedono i documenti, per controllare la confessione di appartenenza (come d’altronde accade ovunque in quegli anni, sia in aree a maggioranza cristiana che in aree a maggioranza musulmana). Poco dopo mezzogiorno arriva un bus con a bordo militanti del Fronte arabo di Liberazione, un gruppo legato al partito Ba’ath iracheno e aderente all’OLP. Disarmati, a bordo ci sono sia palestinesi che simpatizzanti libanesi, incluse donne e bambini. Tutti musulmani. Stanno tornando dalla manifestazione di Tal el Zaatar e sono diretti al campo profughi palestinese di Sabra. Non appena i Falangisti si accertano della loro appartenenza confessionale, decidono che è il momento della “vendetta”, una vendetta molto trasversale: almeno in sei aprono il fuoco sul bus, crivellandolo di colpi, e uccidendo tutte le persone a bordo. Siamo a meno di cento metri dal punto dove due ore prima c’era stato lo scontro a fuoco costato la vita a quattro persone. Da una scuola elementare che affaccia tuttora sul luogo dove il bus è stato attaccato, i bambini possono vedere tutto. E in molti vedono effettivamente tutto. Nei tre giorni successivi, scontri armati all’interno di Beirut e nei suoi dintorni – che vedono contrapporsi i Falangisti e i Fedayin, coadiuvati dai loro alleati locali del Movimento Nazionale Libanese guidato dal druso Kamal Jumblatt, assieme ad altri gruppi sopratutto comunisti e socialisti – produrranno più di trecento morti. Basteranno e avanzeranno per far capire a tutti che quella, anziché “limitarsi” ad essere una giornata particolarmente tesa, è in realtà solo l’inizio di un vortice di indicibili violenze e rappresaglie: un circolo vizioso che provocherà decine di migliaia di vittime in tutto il Paese e almeno 17mila desaparecidos (di cui circa 3000 potenzialmente identificabili, grazie al lavoro di ICRC), nel corso di un interminabile arco temporale di 15 anni. In troppi vedranno stravolta per sempre la loro vita. Il Libano non è mai davvero del tutto uscito da quegli anni, e ciò ha molto a che fare con la mancanza di un vero, inclusivo, leale processo di riconciliazione inter confessionale e nazionale. Per molti versi, anziché lasciare la stanza dopo averla setacciata, chiudendo poi molto bene la porta, si è deciso semplicemente di spegnere la luce. Prossimamente un documentario sul concetto di memoria collettiva in Libano, attraverso le immagini e le parole di ex combattenti e di famiglie che tuttora, indecise se coltivare rabbia, speranza, rassegnazione, o tutte e tre, o nessuna delle tre, non hanno idea di dove siano – e se siano vivi – i loro cari, scomparsi nei buchi neri del conflitto. Qui sopra, tre foto iconiche dal luogo dove tutto iniziò: la piccola lapide dedicata a Joseph Abou Assi, di fronte ad un negozio sul quale fa capolino la targa blu della via a lui intitolata, nel luogo esatto in cui si accasciò; la famosa foto al bus, scattata dopo che vennero portati via i cadaveri; la stessa foto scattata da me, dallo stesso punto (si vede dal palazzo sul lato destro dello sfondo). Ain El remmaneh [1975-1990 الحرب الأهلية]
