A PROPOSITO DI WOODY ALLEN E ROMAN POLASKY

Da qualche giorno è disponibile online l’autobiografia di Woody Allen “A proposito di niente”, edita da La Nave di Teseo. Come sicuramente sapete, il libro è stato al centro di un vero e proprio caso editoriale quando l’editore americano Hachette si è calato le braghe annunciando che non l’avrebbe pubblicato “in seguito a proteste dei dipendenti”. Un modo eufemistico per dire che Hachette è stato minacciato da Ronan Farrow, il figlio di Mia Farrow che ha vinto il Pulitzer per i servizi sul #MeToo e ha successivamente deciso di distruggere colui che all’anagrafe continua a risultare come suo padre (anche se non porta il suo nome): Woody Allen, appunto. Farrow aveva definito la decisione di Hachette di pubblicare il libro “un tradimento”. Non sono metodi molto diversi da quelli che nell’Urss degli anni ’30 e ’40 impedivano la pubblicazione, che so, di “Il maestro e Margherita”. L’unica differenza è che, a differenza di Bulgakov e delle vittime delle purghe staliniane, Woody Allen ha ancora il diritto di prendersi degli avvocati e i soldi per pagarli. Woody aggiungerebbe che c’è un’altra differenza, che Bulgakov era un grande scrittore e lui no. Opinioni. Il libro è pieno di pagine strepitose e incredibili sul “caso” di molestie (chiuso e stra-chiuso dal punto di vista giudiziario: Woody Allen non ha mai molestato la figlia Dylan ed è innocente, punto e stop) che perseguita il regista/attore dal 1992. Ce n’è per tutti: per Mia Farrow, per i suoi figli adottivi e non – alcuni plagiati e probabilmente ormai rovinati per sempre, alcuni ribellatisi –, per gli attori che gli hanno girato le spalle dopo aver avuto l’onore di lavorare con lui. Una pagina al vetriolo su Timothée Chalamet – che avrebbe confessato alla sorella di Allen e sua produttrice, Letty Aronson, di aver attaccato Allen nella speranza di vincere l’Oscar – ha già fatto il giro del web. Sentiamo già l’obiezione: è la campana di Allen. Certo, e meno male! Visto che Ronan Farrow – uno che ha lavorato anche con Barack Obama – ha ai suoi piedi la stampa americana e manipola l’opinione pubblica a suo piacimento, meno male che Woody può ancora parlare! Per altro anche lui ha ottimi avvocati (che hanno vinto tutte le cause, finora) e sicuramente ogni parola del libro è stata accuratamente vagliata. Ma il libro, almeno all’80%, è tutt’altro, o ANCHE altro. È il racconto autobiografico di un artista che abbiamo molto amato negli anni – più noi europei che gli americani, va detto – e che merita di essere letto anche saltando a piè pari le pagine che dimostrano come Mia Farrow sia un essere a metà fra un’ossessa dostoevskiana e un’eroina dei fratelli Grimm. Woody Allen parla molto dei suoi inizi in tv e in teatro, che in Italia sono poco noti. Sono le pagine di gran lunga più interessanti, nelle quali scopriamo anche sue curiose idiosincrasie: adora Bob Hope – che noi italiani conosciamo poco – mentre non ride davanti a Stanlio e Ollio, o a Jerry Lewis. È evidente: gli piace la comicità di parola, arguta, non quella fisica e primaria, magari un po’ infantile. In fondo non è una sorpresa. Parla anche dei film, non di tutti, e non in modo molto approfondito. Ribadisce di continuo di non aver fatto nemmeno un capolavoro (cosa su cui potremmo discutere) e di non aver mai letto una sola critica di un suo film, favorevole o negativa. È un libro delizioso, divertente, arguto, che sprizza intelligenza e anticonformismo ad ogni riga. Per spingervi a leggerlo, vogliamo farci da parte e proporvene un passo. E se non vi fa ridere, non comprate il libro: poi verreste a chiederci i soldi indietro, e non li abbiamo! Prima, due righe di contesto. Woody e sua moglie Soon-Yi sono nel Sud della Francia. Incontrano Larry Gagosian, un loro amico mercante d’arte e proprietario di gallerie. Chiacchierano e finiscono a parlare di Roman Polanski, del quale Gagosian è amico. Parte la citazione. “Perché non andiamo a cena con Roman la prossima volta che passo da queste parti?” mi propone Larry. “Ma certo,” dico io, contando sul fatto che, come capita sempre in questi casi, non se ne farà nulla e, per quanto apprezzi le persone coinvolte, al momento della verità preferirò rimanere a casa. Comunque finiamo il dessert e ci salutiamo. Stacco a tre settimane dopo. Telefonata di Gagosian. Mi va di andare a cena a casa di Roman insieme a Soon-Yi? Soon-Yi, come sempre entusiasta di fare vita di società, sta già pensando a cosa mettersi. Bene, penso, non vedo Roman da decenni, è un regista fantastico, possiamo parlare di film, ricordare la Londra degli anni Sessanta. Quali controindicazioni potrebbero esserci? Quando arriva il giorno previsto, ho un attacco di misantropia, ma cerco di farmene una ragione. Come regista mi sento naturalmente inferiore a Roman, ma questo non mi aiuta. E così andiamo alla cena a Cap d’Antibes. Devo dire che la villa a picco sul mare è un vero schianto: enorme, maestosa, con un giardino lussureggiante. Mentre una frotta di domestici circonda la nostra automobile, Soon-Yi mi chiede: “Quant’è che aveva incassato ‘Rosemary’s Baby’?” Le assicuro che per essere così ricchi non basta avere azzeccato un successo, bisogna avere investito accortamente i propri soldi. Soon-Yi mi aiuta a superare la mia fobia dell’ingresso mentre una donna molto sexy viene a salutarci. “Salve,” ci dice. “Sono la moglie di Roman.” E certo, ricordavo il film in cui si erano conosciuti. Bellissima donna. “Roman scende subito,” continua. “Gradite dello champagne?” Combattendo la mia naturale goffaggine, comincio a cianciare in modo troppo effervescente. “È da una vita che conosco Roman,” dichiaro (mi mancava solo di avere in mano un sigaro). “Davvero?” fa la moglie. “Ah, la Swinging London! Che bei tempi! Che bei ricordi!” continuo, da perfetto idiota. Ci raggiungono altre persone e, non so se il mio apparecchio acustico abbia dei problemi o io sia proprio stupido, mi sembra di sentire il nome Roman. Soon-Yi, che non lo conosce e non sa che faccia abbia, gli porge la mano e lo saluta. Il gruppetto comincia a parlare di yacht o di jet privati. Nel frattempo la mia dolce metà mi dà di gomito e mi dice sotto voce: “È Roman Polanski, non essere scortese con il tuo vecchio amico.” “Quello non è Roman Polanski,” la informo da un lato della bocca, come uno di quei tipi che all’ippodromo ti danno una dritta sui cavalli vincenti. “E io ti dico di sì,” mi fa, dandomi il tipico pizzicotto occulto che si usa tra coniugi. “Ti dico che conosco Roman da cinquant’anni.” “Sua moglie lo ha appena presentato. Non l’hai sentita perché sei sordo come Beethoven.” “Quello non è Roman Polanski,” le assicuro. “Non mettermi in imbarazzo,” ribatte lei. Intanto tutti lo chiamano Roman. E salta fuori che è Roman Abramovič, il miliardario russo, il che spiega tutto quel lusso: Cristo, solo di manutenzione un giardino come quello costava più degli incassi di ‘Rosemary’s Baby’!”. Come dite? Che ho scelto questo brano perché parla di un altro regista coinvolto nel #MeToo? E che c’è qualcosa di sottilmente perfido, da parte di Woody e da parte mia, nel fatto che la madre del demonio in “Rosemary’s Baby” fosse Mia Farrow (nella foto, lei e Polanski sul set)? Ora che mi ci fate pensare, è probabile che abbiate ragione.