DIRE, DIRE DI PIÙ, DIRE QUALCOSA

DIRE, DIRE DI PIÙ, DIRE QUALCOSA

Mi chiedevo del perché non mi risolvevo a scrivere. Una condizione inusuale, oltreché inquietante, per uno come me che da quasi cinquant’anni vive e agisce la scrittura come il suo principale mezzo espressivo. Sono al massimo riuscito a graffiare e ironizzare, indignarmi e rattristarmi, assemblare manciate di parole da proiettare su un display che ho trovato ancora più opaco e muto.Ho provato allora a rispondermi che forse questa quarantena quaresimale smorzava gli impulsi e svuotava le intenzioni. Per poi replicare che, al contrario, proprio tale pausa ansiosa e forzosa avrebbe dovuto spingere a dire, dire di più, dire qualcosa. Per poi frenarmi nel pudico timore di non riuscire a offrire senso o ragioni o alcuna utilità a chi incrociasse il mio argomentare, il mio considerare: desiderando impudico che la mia scrittura diventi lettura.Sono consapevole che i miei microscopici turbamenti appaiono del tutto trascurabili, alla luce dell’aggressione virale che stiamo subendo, silenziosa come la lingua di un serpente e feroce come il morso di una iena. E tuttavia, per quanto irrilevanti, sono anch’essi parte di questa soffocante angoscia che ci attanaglia e che, per l’appunto, ci ammutolisce. E’ come se un intero patrimonio di arti e saperi, di pensieri e umori, di lotte e progetti fosse improvvisamente diventato caduco e fallace. Costretto a ripiegare sotto l’urto di una scoria germinata in un infimo angolo del pianeta, che ora pascola indisturbata tra le fortezze della nostra civiltà, mai prima d’ora apparse così esili.Cosa mai può avere rilevanza, in questa terrificante pandemia? Di sicuro la battaglia negli ospedali, nei laboratori, nei centri operativi e in tutti i modi e luoghi utili a contrastarla. Più difficile o forse impossibile nelle solitudini, fisiche o interiorizzate che siano. Solitudini sballottate tra paure ancestrali, pulsioni primordiali, cosa sta succedendo, dove andremo a sbattere, cosa ne sarà di noi, cercando invano di rimuovere le consapevolezze più terribili. Solitudini spaesate che vagano tra il suono inaspettato di campane sconosciute, le prime foglioline di un glicine abbandonato, la pioggia che scende, il vento che sibila, il volo degli uccelli, lo sguardo di un gatto.Questo virus che aleggia insidioso ci ha fatto precipitare nei sotterranei della coscienza, in quella malferma profondità in cui galleggia misterioso il senso della vita. Quasi che tutto ciò che abbiamo vissuto, realizzato, pensato, l’accumulo di conoscenze, esperienze, memorie, sentimenti, stia depositato dietro le nostre spalle, non di certo inerte ma tuttavia flebile e intiepidito.Stiamo vivendo un tempo difficile, difficilissimo. Ma è un tempo che restituisce la nostra essenza e costringe a fermare la nostra corsa. Non so se ne usciremo migliori, né mi consolano gli arcobaleni dipinti o i tricolori svolazzanti. Intanto proviamo a uscirne, possibilmente più umani di quanto siamo stati finora. E il dopo sarà tutto da scrivere.