È PER I SUOI “ANGELI” L’ULTIMO SGUARDO DI FALCONE

È PER I SUOI “ANGELI” L’ULTIMO SGUARDO DI FALCONE

Il 23 maggio 1992 tutti i sismografi presenti in Sicilia registrarono una fortissima scossa alle ore 17 e 56 minuti e 32 secondi, per la precisione.Questa volta non si poté negare che quell’evento fosse di origine naturale.Sì perché quella scossa in realtà fu un’esplosione di una potenza devastante. E ad esplodere insieme a quella carica di 572 chili di esplosivo posto sotto un condotto fu un intero tratto dell’autostrada in direzione di Palermo, vicino allo svincolo di Capaci. Uno scoppio che prese in pieno la prima delle tre auto blindate che formavano il corteo su cui viaggiano Giovanni Falcone e la moglie Francesca Morvillo, anche lei magistrato.Nella prima auto c’erano i poliziotti Antonio Montinaro, Rocco Di Cillo e Vito Schifani mentre in quella che seguiva il giudice Falcone la moglie con l’autista giudiziario Giuseppe Costanza che per l’occasione si era messo nel sedile posteriore. Il magistrato infatti aveva preferito mettersi alla guida con accanto la moglie.L’ultima auto, la terza blindata del corteo, trasportava gli agenti Angelo Corbo, Paolo Capuzza e Gaspare Cervello.Furono loro che leggermente feriti, terribilmente scioccati si muovono a protezione dell’auto del giudice Falcone.Sono loro che si avvicinano, la circondano, la “cingono” come hanno sempre fatto ma temendo ancora di peggio di quello che hanno vissuto in quegli istanti prima. Comprendono.Sono loro che vedono i corpi di Falcone e della moglie, feriti e cercano di dare un primo soccorso.Sono loro che sperano, non vedendola che la prima auto, quella con gli altri colleghi, con gli amici, sia passata indenne e stia già dando l’allarme.In realtà l’auto verrà trovata solo qualche ora dopo a più di un centinaio di metri, in un campo, nascosta, con i corpi senza vita dei tre uomini.Intanto, nella immediatezza del dopo esplosione, Angelo, Paolo e Gaspare capiscono che giudice Falcone, sua moglie Francesca e l’autista Costanza dopo l’esplosione sono ancora vivi. Francesca respira ma è priva di conoscenza, mentre il giudice Falcone mostra con il movimento degli occhi di comprendere. È per quegli “angeli” probabilmente l’ultimo sguardo del giudice prima di perdere conoscenza. E’ per loro che si porteranno per sempre il peso di questi istanti in cui si trovano impotenti di fronte ad una delle grandi vittorie del male.Arriveranno i soccorsi ma la corsa in ospedale in ambulanza ed il prodigarsi dei medici non riuscirà a salvarli. Entrambi moriranno dopo poche ore.Le gravissime lesioni interne non lasceranno scampo, mentre il destino e le cure salveranno l’autista Costanza.«C’è stato un grosso botto, uno spostamento d’aria, una deflagrazione. Mi sono sentito catapultare in avanti», racconta Angelo Corbo uno degli uomini a bordo della terza auto. «Dopo l’esplosione con grossa difficoltà si è cercato di uscire dall’auto, perché purtroppo eravamo anche pieni di detriti, di massi. Uscendo si è capito della gravità della situazione, la voragine purtroppo era ben visibile. Ci siamo avvicinati alla macchina del dottor Falcone mettendoci intorno per non fare avvicinare nessuno. L’auto era praticamente in bilico su quel cratere con la parte anteriore che sembrava mancante. Non riuscivamo a estrarre né Falcone né la dottoressa Morvillo, altre persone sono venute in aiuto. Ricordo che non riuscivamo ad aprire gli sportelli, specialmente quello del dottor Falcone che era bloccato. Dalla parte della dottoressa Morvillo invece c’era il vetro sradicato, e con l’aiuto di volontari l’abbiamo tirata fuori dall’abitacolo. Intanto l’auto di Falcone stava prendendo fuoco, allora ci siamo attivati per spegnere questo principio d’incendio. Il dottor Falcone era in vita, non so dire se era cosciente, perché purtroppo con il vetro blindato non si sentiva nulla, comunque era vivo. Si era pure rivolto verso di noi guardandoci. L’autista Costanza era sul sedile posteriore ed era sdraiato su un fianco». Sul destino di quegli uomini, a quel tempo, pochi avrebbero scommesso. Poco c’era da sperare dalla forza dissuasiva delle scorte a quel tempo se non lo spirito di sacrificio ed una grande ammirazione rivolta alle persone da proteggere.Di fronte alla potenza di fuoco, all’organizzazione, alla capacità d’infiltrazione della mafia ben poco potevano fare.I fatti, i segnali che precedevano quel giorno pesavano come una cappa insopportabile nelle vite di tutti loro. I capi mafia, il mondo contiguo avevano deciso che il disturbo, gli affronti, le inchieste non potevano andare oltre. Pure gli avvertimenti ed i tentativi di isolamento non avevano portato effetto. Serviva una dimostrazione di forza, di potenza militare che pure doveva essere seguita da una cornice di connivenze, coperture e deviazioni nelle indagini. In una grande unica parola serviva, “l’attentatuni”, il grande attentato, l’inizio di una guerra militare che poi avrebbe portato al compimento della resa di uno Stato nella trattativa con la mafia.E sulla volontà da parte della mafia di combattere una vera guerra contro gli uomini fedeli ai principi delle istituzioni molto si è scritto. Ma troppo rimane ancora oscuro mentre ancora oggi si “celebrano” le volontà di minimizzare, di rendere fantasiose le tesi che allargano le responsabilità ben oltre la cupola mafiosa.Lo scorso anno il giudice Roberto Scarpinato ha avuto da dichiarare, in una intervista sul Fatto, su quei tragici anni che dietro quella campagna di stragi che vanno da Capaci a Via D’Amelio, a quelle di Firenze, Milano e Roma si celarono menti raffinate e soggetti esterni il cui ruolo attivo sarebbe emerso anche nella fase esecutiva delle stragi. Purtroppo, dopo tutti questi anni di indagini, non è stato ancora possibile identificarli.Ed il senso di una verità sfilacciata, a brandelli, è emerso forte sulle tante volontà di mettere in atto un periodo stragista che destabilizzasse un Paese.Lo diceva già in un’informativa del 1993 la Dia (Direzione Investigativa Antimafia), citata pubblicamente dal giudice Scarpinato: dietro le stragi si muoveva una “aggregazione di tipo orizzontale, in cui ciascuno dei componenti è portatore di interessi particolari perseguibili nell’ambito di un progetto più complesso in cui convergono finalità diverse”; e dietro gli esecutori mafiosi c’erano menti che avevano “dimestichezza con le dinamiche del terrorismo e con i meccanismi della comunicazione di massa nonché una capacità di sondare gli ambienti della politica e di interpretarne i segnali”.Insomma come ricorda Scarpinato al tempo impegnato alla Procura di Palermo: “Insieme a personaggi come Salvatore Riina, Matteo Messina Denaro, i fratelli Graviano e altri boss che perseguivano interessi propri di Cosa Nostra, si mossero altre forze che utilizzarono la mafia come braccio armato, come instrumentum regni e come causale di copertura per i loro sofisticati disegni finalizzati a destabilizzare la politica”.Ed ebbe a ribadire Scarpinato, in occasione del venticinquesimo della strage su quella autostrada per Palermo:“Sono ancora ignoti i personaggi che, dopo la strage di Capaci, si affrettarono a ispezionare i file del computer di Falcone (riguardanti Gladio e i delitti politico-mafiosi) nel suo ufficio romano al ministero della Giustizia, alla ricerca di documenti scottanti di cui evidentemente conoscevano l’esistenza. E restano senza nome anche gli uomini degli apparati di sicurezza che fornirono ai mafiosi le riservatissime informazioni logistiche indispensabili per uccidere Falcone già nel 1989 nel momento in cui si sarebbe concesso un bagno sulla scogliera del suo villino all’Addaura”.Parole che obbligano ad un impegno rinnovato in tempi in cui il rischio di dimenticare sembra debba piacere a molti.Oggi, dunque, a ventisei anni da quel tragico giorno, oltre le celebrazioni, oltre la commozione per il sacrificio di quegli uomini, per il dolore incolmabile delle famiglie, oltre i segni mai rimarginabili sui corpi e nei cuori di quanti riuscirono a salvarsi, rimane forte e indiscutibile il sentimento verso la ricerca della verità che non può che essere un dovere solo istituzionale, ma anche morale dell’intero Paese, di tutta la comunità.È questo, più di tante corone e tante frasi di rito, il sistema più autentico e sincero per onorare la memoria di quei martiri.E non solo di loro, di quanti persero la vita a Capaci, ma andando oltre anche per dare un senso al sacrificio dei tanti servitori dello Stato che combattono quotidianamente per il rispetto dei valori democratici.Non fosse altro che per onorare quello che stesso Falcone ebbe a dire dei tanti uomini a cui stanno realmente a cuore le istituzioni e che hanno le loro esistenze letteralmente inghiottite da quello che definì “il gioco grande del potere”. Un gioco le cui regole, ancora oggi, contemplano che la verità per la strage di Capaci, per le altre stragi di questo povero Paese, resti ancora a brandelli.