CRONACHE DAL FRONTE (ULTIMA PUNTATA)
Questa mia Cronaca, la n. 52, è anche l’ultima. L’ultima puntata di questo mio COVIDiario che ho curato giorno dopo giorno, con dedizione, per quasi due mesi. E’ stata, l’avrete capito, la mia medicina in questa lunga quarantena. Ed ha funzionato. Perché mi ha riscaldato il cuore e mi ha fatto sentire meno solo quando la solitudine ci è stata improvvisamente imposta per legge. Perché mi ha permesso di riflettere in assoluta libertà e di continuare a viaggiare anche se con la mente. Ma soprattutto perché, grazie a voi, è riuscita a dare un senso condiviso, partecipato a questa esperienza inedita di clausura che stavo vivendo. Da domani però, 4 maggio, verranno meno, poco alla volta, molte delle condizioni restrittive da cui era nato questo nostro appuntamento quotidiano. Era stata proprio la quarantena – che per me è iniziata il 9 marzo – a spingermi verso una scrittura di tipo diverso, apparentemente meno giornalistica: sentivo cioè il bisogno di lasciare una traccia personale, soggettiva, di quello che stava accadendo fuori e delle inevitabili ripercussioni che aveva dentro, dentro la mia prigione e quindi dentro di me. E adesso che, come la vostra, la mia quarantena volge al termine, il mio rapporto con la scrittura non può che cambiare. Perché non è più di diari come questo che c’è bisogno. Prima sì. Fin dall’inizio di questo interminabile lockdown ho avuto la sensazione che il racconto giornalistico classico – anche il mio, quello dei miei servizi e reportage – fosse in un certo qual modo deficitario, che non riuscisse cioè ad includere gli umori oltre ai fatti, quegli umori che erano il vero dato nuovo dell’ esperienza che l’Italia stava vivendo, e che ci si trincerasse stupidamente dietro una presunta oggettività da dover restituire, proprio quando prepotente e ineludibile era invece la soggettività, il personale: quello di tutti noi, anche del giornalista. Serviva, secondo me, un Grande Racconto Popolare per raccontare a dovere questa pandemia. E non c’è stato o c’è stato solo in parte. C’è stato tutte le volte che qualcuno ha scelto di avere uno sguardo diverso, di cercare una chiave di lettura e una prospettiva non scontata per i fatti che ci stavano davanti e per le storie e i soggetti che ne erano i protagonisti. L’ha fatto secondo me Paolo Rumiz su Repubblica, l’ha fatto il mio amico Toni Capuozzo con le sue“Lettere da un Paese chiuso”, l’hanno fatto alcuni scrittori di professione prestati al giornalismo (ad e sempio Paolo Giordano o Nadia Terranova) ed altri colleghi di cui al momento mi sfugge il nome e con cui mi scuso. All’estero tanti, in Italia pochi. Carlo Ginzburg, il grande storico, ha scritto qualche anno fa che talvolta “bisogna cercare di sottrarsi al rumore incessante delle notizie che ci arrivano da ogni parte. Per capire il presente dobbiamo imparare a guardarlo di sbieco. Oppure, ricorrendo a una metafora diversa, dobbiamo imparare a guardare il presente a distanza, come se lo vedessimo attraverso un cannocchiale rovesciato. Alla fine l’attualità emergerà di nuovo, ma in un contesto diverso, inaspettato”. Ecco, con questo mio COVIDiario ho provato, timidamente e un po’ goffamente, a fare un’operazione del genere. Non so se ci sono riuscito e non so se il mio sforzo è servito a qualcosa. Ho pensato in ogni caso che l’aver frequentato per una vita intera i teatri di guerra e le emergenze di ogni tipo potesse aiutarmi a raccontare da uno strano ma forse inedito ed interessante angolo visuale questa pandemia. Ed ho deciso che un social media popolare come Facebook fosse la giusta piattaforma per farlo: non tanto o non solo perché sarei stato libero di scrivere senza costrizioni e senza dovermi curare più di tanto delle regole del giornalismo, ma soprattutto perché l’interazione che Facebook mi avrebbe garantito – non con gli I like ma con i commenti – rappresentava una modalità di comunicazione efficace in tempi di quarantena. E così è stato. In tanti avete contribuito a scrivere e ad arricchire questo mio COVIDiario, aggiungendo – in perfetta sintonia con me – altre storie alle mie storie. Mi avete commosso, mi avete sostenuto, mi avete regalato racconti e sensazioni che mi hanno stimolato in questo percorso. Fra noi si è creata un’intimità che è stata preziosa. Ed è nata una piccola comunità: uno spaccato vero, autentico e senza filtri, della nostra amata Italia ai tempi del coronavirus. Di questo sono fiero. Siamo stati bravi. Adesso andiamo avanti.
