CRONACHE DAL FRONTE (PUNTATA N. 55)

Evviva. E’ scoccata finalmente l’ora dei test seriologici. Che dilagano ormai in tutta Italia – grazie ai massicci ordinativi di governo, regioni ed enti locali – e nell’immaginario collettivo sembrano aver sostituito la corsa al tampone dei mesi scorsi. Sono diventati infatti la nuova panacea, la via maestra per ottenere la cosiddetta “patente di immunità” e poter quindi ripartire alla grande in questa benedetta Fase 2. D’altra parte, a differenza dei tamponi, questi test sono alla portata di tutti, li può prescrivere addirittura il medico di famiglia e non costano nemmeno tanto. Peccato però che la loro attendibilità sia ridotta, per ora, e peccato poi che i falsi negativi, così come i falsi positivi ahimè, siano all’ordine del giorno. Al massimo i test ci possono dire se siamo entrati a contatto con il virus, ma niente di più (o poco di più). In particolare, non ci dicono con certezza se abbiamo sviluppato degli anticorpi che possano neutralizzare il coronavirus. Prendo a prestito una delle ultime dichiarazioni di Silvio Brusaferro, direttore dell’Istituto Superiore di sanità: “Non sappiamo ancora quanto dura la memoria immunitaria e la quantità di anticorpi protettivi che consente di dire che una persona è immune. I test sierologici cercano di individuare questi anticorpi, però mancano molte informazioni per dedurne conclusioni certe. Per questo non sono stati raccomandati dal ministero, perché non danno patenti di immunità”. Il punto però è proprio questo. E ’giusto che si introducano delle patenti di immunità? E’ giusto cioè distinguere fra chi è immune e chi non lo è? La risposta non è così scontata come appare a naso. E poi, fino a che punto? Siamo veramente certi che questa distinzione serva a proteggere i più deboli e non venga utilizzata invece per discriminarli? Proprio qualche settimana fa, sul New York Times, una storica americana specializzata nello studio della febbre gialla – si chiama Khatryn Olivarius – raccontava una storia assai interessante sulla città di New Orleans e sulle trasformazioni sociali indotte proprio da un’epidemia di febbre gialla che la la infestò nella prima metà del XIX secolo, ai tempi cioè di Via col Vento, dello schiavismo, di Mami e di Rossella Ho’ara. A quel tempo gli immuni venivano chiamati “acclimatati” ed erano considerati i prescelti da Dio, quelli che ce l’avevano fatta e potevano quindi godersi questo enorme privilegio. Chi invece non si era “acclimatato”, i non immuni, erano messi ai margini della società e avevano scarse speranze di trovare lavoro, al punto che molti fra i nuovi arrivati in città cercavano di ammalarsi di febbre gialla per ottenere quello status tanto agognato. Secondo la Olivarius si creò così un sistema sociale basato sull’immunità, il cui risultato finale fu il consolidamento dello schiavismo. I bianchi infatti – nelle loro belle fattorie – potevano attenersi alle norme di distanziamento sociale senza alcun problema. I neri invece, nelle loro baracche, morivano come mosche e il rischio del contagio teneva bassi i salari per tutti, a parte i pochi “acclimatati”. La Olivarius parla apertamente di immuno-discriminazioni. Ed è certamente uno spettro che mi pare assai lontano, che non ci riguarda. A patto però che non si abbassi la guardia. Se si arrivasse infatti a creare una patente di immunità, potrebbe sempre esserci qualche anima bella – un datore di lavoro, ad esempio – che sarà tentata di utilizzarla per discriminare, per farne cioè uno stigma. Da qui gli inviti, che arrivano da più parti – dai giuristi, soprattutto – a garantire la massima riservatezza, per i test e per l’app che dovrebbe permettere i tracciamenti. Non è un dettaglio. E discuterne non vuol dire menar il cane per l’aia. Al peggio, si sa, non c’è mai limite. P.S. In foto la locandina di VIA COL VENTO