LE “FAVOLACCE” SENZA SPERANZA DEI FRATELLI D’INNOCENZO, “ON DEMAND” DA LUNEDÌ 11

LE “FAVOLACCE” SENZA SPERANZA DEI FRATELLI D’INNOCENZO, “ON DEMAND” DA LUNEDÌ 11

Ammonisce il primoverso di “Passacaglia della vita”, attribuita a Stefano Landi e cantata con anglofono accento dal duo Birds on a Wire: “O come t’inganni / se pensi che gl’anni / non hann’ a finire… / Bisogna morire”. Già, non si sfugge. “Morire bisogna” è l’altra variazione del canto cinquecentesco che suggella, sui titoli di coda, la crudele storia narrata da “Favolacce” dei fratelli gemelli Fabio e Damiano D’Innocenzo, classe 1988, from Tor Bella Monaca. Premiato alla Berlinale con un Orso d’argento per la migliore sceneggiatura, il film prodotto da Agostino e Giuseppe Saccà doveva uscire nelle sale ad aprile con Vision Distribution, cioè Sky. Venuto meno il grande schermo, eccolo “on demand” da lunedì 11 maggio sulle seguenti piattaforme a pagamento: Sky Primafila, TimVision, Chili, GooglePlay, Rakunen Tv, Infinity e CG Enternainment. Naturalmente c’è poco da ridere con “Favolacce”, il cui titolo peggiorativo, un po’ alla Sergio Citti ma per nulla pasoliniano nei riferimenti antropologici, allude a una torva raccolta di eventi che hanno per protagonisti quattro preadolescenti in una Spinaceto ad alto tasso simbolico: per ambienti, fotografia, riferimenti temporali, cronologia dei fatti, contesti sociali. “Quanto segue è ispirato a una storia vera, la storia vera è ispirata a una storia falsa, la storia falsa non è molto ispirata” scandisce sibillina la voce narrante di Max Tortora, evocando un diario ritrovato nel quale rintracciare alcuni antefatti. Diversamente da “La terra dell’abbastanza”, i fratelli D’Innocenzo qui puntano subito su un’impaginazione non realistica, fortemente allegorica, elaborata sul piano cromatico, con punti di vista geometrici, a partire dai “totali” insistiti che cambiano angolazioni, non si capisce bene se a suggerire lo sguardo di qualcuno che spia. Però si capisce subito che in quelle villette a schiera, così linde e ordinate, benché “simulacri” di un benessere appannato, le cose non vanno tanto bene. Un disagio strisciante, da famiglia “disfunzionale”, con improvvisi scoppi di rabbia, permea la vita risentita di quelle coppie dedite al rito del barbecue. Alcuni dei ragazzi prendono ottimi voti a scuola, quasi tutti 10, ma il loro crescere è tutt’altro che armonioso: invelenito da ciò che vedono e sentono in casa, gravato da una goffa dimestichezza con l’apprendistato sessuale, turbato da una ferocia verbale pronta a trasformarsi in azione molesta. Quasi a congelare quei rapporti familiari malsani, i ragazzi si chiudono in un enigmatico silenzio, provando a sperimentare il calore della tenerezza, la fuga salvifica, ma la follia sembra annidarsi dappertutto, anche tra le mura scolastiche.Bisogna vedere “Favolacce” senza aspettarsi una storia compiuta sul piano drammaturgico: il film procede per episodi assai sgradevoli ma resi con ricercata eleganza formale; tutti gli adulti sono a un passo dallo “sbroccare” o dal fare cose orribili, anche se il senso della minaccia è tutto stampato sul viso di uno dei genitori, il più risentito della compagnia, impersonato da Elio Germano, modalità “schizzato”. Non saprei dire, francamente, se “Favolacce” mi sia piaciuto. Ho trovato artificioso l’uso della voce narrante, soprattutto per la povera qualità del testo scritto (eppure è stato premiato a Berlino per il copione); e risultano inspiegabili, solo molto urlate, alcune caratterizzazioni in bilico tra dark, grottesco e orrido, tra suburbano e subumano. D’altro canto, i due fratelli custodiscono uno stile personale, nutrito di dettagli inattesi e curvature suggestive, grazie alla fotografia di Paolo Carnera che asseconda ossessioni, intendimenti, ambizioni. Di sicuro il film non è una passeggiata: per il pessimismo che grava sin dall’inizio su queste vite sfatte, sia pure dentro un acido benessere piccolo-borghese; per il crescendo delle tensioni sotterranee, in quel caldo estivo, umido e accecante, che non invita alla favola antica.A proposito dei riferimenti espressivi, ho letto le cose più disparate, magari tutte pertinenti: da “Il giardino delle vergini suicide” di Sofia Coppola alle atmosfere inquietanti di David Lynch e Michael Haneke, dagli scatti desolati del fotografo Gregory Crewdson alle suggestioni letterarie di Raymond Carver e John Updike, sia pure in chiave fortemente dialettale, con una punta di cinema coreano e un non so che di Matteo Garrone. “Quel tipo di immaginario sospeso, rarefatto, quasi da fantasmi; la dimensione del ricordo, ma sublimato” hanno spiegato i due fratelli in un’intervista al “Corriere della Sera”. Poi, però, c’è il film.