OGGI COMPIREBBE 87 ANNI SERGIO ENDRIGO, UN GRANDE DELLA MUSICA LEGGERA ITALIANA

OGGI COMPIREBBE 87 ANNI SERGIO ENDRIGO, UN GRANDE DELLA MUSICA LEGGERA ITALIANA

C’è un cantante, crediamo l’unico o quasi, che nella storia della musica leggera italiana, si è distinto per avere collaborato in vari modi con  numerosi artisti e scrittori del suo tempo. Il suo nome è Sergio Endrigo e i nomi che hanno accompagnato la sua produzione artistica sono quelli di Giuseppe Ungaretti, Pierpaolo Pasolini, Gianni Rodari. Tra gli stranieri ci sono Rafael Alberti, Vinicius de Moraes e José Marti. Forse ne dimentichiamo qualcuno, Ma di certo il panorama letterario nel quale ha operato è di quelli che non ammettono dubbi. Ci troviamo di fronte ad uno dei massimi artisti dell’Italia musicale contemporanea. Pure nutriamo seri dubbi che oggi troveremo molti esperti che si ricorderanno di lui e di quello che ci ha lasciato. Endrigo è nato a Pola il 15 giugno del 1933. Compirebbe  87 anni. Ma ci ha lasciato quindici anni fa, settantaduenne e fin dai tempi del suo decesso è parso che ci fosse qualcosa o qualcuno che cancellava le tracce delle sue opere. Endrigo era un autore che gridava sottovoce il dolore o la gioia che determinavano i testi di tante delle sue canzoni, si trattasse di un amore deluso o di un’ingiustizia da denunciare. Parrebbe impossibile gridare sottovoce. Ma, a sapere leggere i suoi testi si poteva rintracciare il grido in dissolvenza di un animale ferito, come quando mormorava “Basta così”. Oppure il gusto liberatorio di inneggiare a Maddalena che regala notti bianche. Gridava piano, ma senza strillare e quindi veniva ascoltato solo da chi lo voleva ascoltare. Per nulla al mondo avrebbe rinunciato a questo suo pudore spudorato. Tanto da incorrere nelle maglie della censura negli anni 60/70, per essersi rivolto a Teresa, segnalandole di avere capito di non essere stato il primo a fare l’amore con lei. Dalle sue parole e dalla loro messa in musica uscivano sentimenti di incredibile dolcezza e cattivi pensieri. Così in amore e così in politica. Capace di rivolgersi alla memoria del Che dicendogli “anch’io ti ricorderò”. Oppure raccontando la storia di un partigiano che si è fatto vent’anni di galera dopo essere andato “in giro per i prati con il mitra e le bombe a mano”, dimostrando di saperli usare. Per poi uscire di prigione e accorgersi che ad aspettarlo non c’è nessuno. Sono tutti al ministero o all’adilà. Forse anche per questo suo modo di esprimersi Endrigo rischia di non passare alla storia, per lo meno nei termini che avrebbe meritato. Per avere conferito dignità poetica a parole di uso comune come amore, senza mai cadere nel banale. Per avere piazzato il fuoco della sua polemica politica nella descrizione di una scialba stretta di mano. Quella di un generale che stringe le mani dei soldati pronti a partire per la guerra, a fare il pieno di imperitura gloria. E lo fa “senza guardarli”. No, Sergio Endrigo era capace di deludere le attese degli amanti dei luoghi comuni. E non appena ti poteva venire in mente che dichiarasse eterno amore alla donna che, sola ed unica, lui amava, eccolo ricordare che il primo bicchiere di vino lo ha spinto al tradimento, solo perché “la domenica è triste star soli”. Certo si prestava a deludere coloro che erano alla ricerca di un eroe dell’ovvio. E quando ti saresti aspettato una filippica da artista politicamente impegnato ti conquistava con una filastrocca per bambini che avrebbe risuonato per generazioni in tutti gli asili d’Italia, parlando di fiori e di case. Lui che provava sentimenti di repulsione quando odorava il fetore di una retorica accomodante agli stereotipi del tempo. E anche in politica non si è mai assoggettato al dovere di cavalcare l’onda del momento. Lui, profugo istriano nativo di Pola, aveva  fatto del suo dolore di migrante la premessa di un sentimento di nostalgia che lo accomunava a tutti coloro che  invidiano “un albero che sa dove nasce e dove morirà”. Nei confronti della Jugoslavia continuò a provare moti di trepidante com-passione, nel senso etimologico della parola. Vale a dire di colui che vive lo stesso pathos di altri esseri umani, lontani solo geograficamente. Come quando si presentò a Spalato con la canzone in serbo-croato “Kud plovi ovaj brod” (“Dove questa nave va”) dedicata ai migranti. Fu come costruire un ponte sull’Adriatico e da allora ci fu un cantutore croato, di origine serba, Arsen Dedić, che costituì con lui un sodalizio artistico, fondato sull’interpretazione delle canzoni di Endrigo in serbo-croato, destinato a durare nel tempo. E tra i nomi delle tante donne cui dedicò le sue canzoni non poteva mancare quella di una ragazza incontrata a Sarajevo (Ljubica, letteralmente Violetta) che entra nel gruppo delle Anna Maria, delle Elisa e delle Marianne che ci hanno accompagnato sulla scia della sua musica. Endrigo sempre si confermò come autore fuori dalle righe, un uomo che tirava dritto per la sua strada e che non si assoggettava alle logiche che conducono alle celebrazioni da rituale. Qualcuno, innamorato di formule retoriche più banali e tronfie lo ha forse dimenticato ma chi ha vissuto quegli anni in cui la canzone italiana si è innalzata a livelli che non le erano mai stati consueti non lo potrà più scordare.