MARIO CORSO, IL PIEDE SINISTRO DI DIO

MARIO CORSO, IL PIEDE SINISTRO DI DIO

“Quattri passi di rincorsa, sinistro liftato, palla che sorvola con inesorabile lentezza la barriera, portiere avversario annichilito mentre la palla si adagia beffarda in rete”. Così, nel suo “Il più mancino dei tiri” (Mondadori) l’immenso Edmondo Berselli, fuoriclasse della scrittura, descrisse il colpo magico di Mariolino Corso, la sua celeberrima “foglia morta”, quella conclusione che sapeva di magia e meraviglia, che si rifaceva alle prodezze di un campione del mondo, il brasiliano Didi. Corso, veronese, ci ha lasciato a 78 anni, ma resteranno, sempre e per sempre, le sue punizioni impossibili, i suoi gol da urlo, i suoi lanci illuminanti: perché lui, numero 11 atipico, amava far viaggiare il pallone, evitando così corse e rincorse: per questo Gianni Brera lo definì “participio passato del verbo correre”.Fu “Il piede sinistro di Dio”, “Mandrake”, fu un giocatore anarchico, incapace di seguire le regole. Tra lui e l’allenatore Helenio Herrera, parliamo delle stagioni della Grande Inter, i rapporti risultavano spigolosi, non facili: ma era impossibile fare a meno di quel calciatore dal calzettoni abbassati, come il suo amato Omar Sivori, che sapeva come risolvere una partita difficile, come far uscire la squadra dalla banalità degli schemi mandati a memoria. Corso rappresentava la soluzione “altra”, il giocatore che, a un certo punto, seguendo estro e istinto, decideva come rimettere le cose a posto, come far trionfare i nerazzurri. Che squadrone, certo: Sarti, Burgnich, Facchetti, Picchi, Jair, Mazzola, Suarez… Ma poi c’era lui, Mariolino, a farci capire che il calcio aveva i suoi profeti, i suoi elementi fuori dalle regole, gli amanti del guizzo a sorpresa, tipi così: decisamente splendidi e strampalati. Dal 1957 al 1973 alla corte interista: quattro scudetti, 2 coppe dei Campioni e 2 coppe Intercontinentali, prima di andare a mostrar bellezza e suscitare stupori al Genoa. La decisione, poi, di fare l’allenatore, anche nella sua Inter. Ma il Corso che resterà nelle pagine e nella memoria rimane quel numero 11, che sapeva come accarezza il pallone, come renderlo bello e impossibile.Ancora Berselli: “Una sola figura si esime dalla regola: è l’uomo in più, il fantasista dal tocco magico, il primo violino che suona una melodia tutta sua mentre l’orchestra segue disciplinatamente lo spartito. È un individuo che lotta contro l’omologazione, un allevatore di lucciole”. Sì, Corso, in quelle stagioni del football romantico, dei miti unici e irripetibili, era il lampo accecante, la “foglia morta” che  riempiva gli spalti di calore e colori.