LA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE SECONDO AMATO
Proprio mentre leggiamo con qualche perplessità e molte obiezioni il recentissimo decreto sulla pubblica amministrazione del governo Letta (quello, per intenderci, che promuove sul campo dipendenti pubblici i testimoni di giustizia), ecco un bell’articolo su “Sole 24 ore” di qualche giorno fa di Giuliano Amato (“Qualcosa si muove nella riforma della Pa”). E’ una boccata di ossigeno. Amato inizia lamentando i ritardi dell’Italia su questo tema, indicando tra i punti dolenti “la lentezza, l’inefficienza e il labirintico incrociarsi delle sedi pubbliche”. Giustamente ricorda come negli anni (specie dagli anni Novanta ad oggi) abbiamo prodotto una gran mole di leggi, molte delle quali rimaste sulla carta per deficit di capacità attuativa (l’esempio dello sportello unico è solo uno dei tanti possibili). Aggiunge che la semplificazione, “intesa come taglio di passaggi procedurali o addirittura come taglio di leggi intere”, ha avuto esiti contraddittori: “Prima la DIA (Dichiarazione inizio attività) e poi la SCIA (Segnalazione certificata inizio attività) sono state di sicuro utili per tanti lavori di edilizia, consentendone l’avvio senza le lunghe attese di un tempo. Ma si tratta di semplificazioni che non riguardano le opere di maggiore impegno e che, nello stesso ambito in cui operano, non liberano certo dall’eventuale contenzioso con interessi pubblici e privati, che risultassero inizialmente ignorati”. E qui Amato ha ragione nel sostenere che a volte le procedure sono complesse perché complessa è la platea degli interessi che vi hanno accesso, molteplici i livelli di governo investiti, plurimi i titolari di interessi con diritto (diritto, da rispettarsi quindi) di farsi valere. “Né – aggiunge, e sono d’accordissimo con lui – la soluzione alla complessità è cadere nella tentazione, in cui troppe volte siamo caduti, di allargare l’uso delle procedure derogatorie, nate per le grandi emergenze e giustificate soltanto dalla loro eccezionalità” (tutto lo scandalo Protezione civile, ai tempi di Bertolaso, si può riassumere in ciò: che qualunque attività dello Stato veniva messa sotto l’ombrello della Protezione civile per poter dribblare le regole avrebbero dovuto scandirla e controllarla). “Il tema allora è come gestire la varietà degli interessi pubblici, senza tagli impossibili e deroghe, ma anche senza trovarsi nell’inferno di un labirinto in cui tutti giocano a domino, perché vi sono troppe strade che si incrociano e chiunque si incontri sbarra la strada agli altri”. E qui Amato richiama il modello francese della amministrazione di missione, “che raccoglie attorno a un medesimo progetto le diverse istanze, rese tutte corresponsabili della sua realizzazione” (cooperazione e non reciproca interdizione). L’autorità in capo alla missione “non taglia e non deroga, ma impone il rispetto del gioco”. In Italia questo modello è stato sperimentato in piccolo, ad esempio per le celebrazioni dei 150 anni dell’unità d’Italia (ambito nel quale lo stesso Amato ha avuto parte predominante). Un altro esempio – recentissimo, dell’8 agosto – è quello del Direttore generale di progetto istituito per la Grande Pompei. La sostanza – sostiene Amato – “è quella della missione, che mette insieme poteri di coordinamento, poteri istruttori e poteri di gestione, facendoli confluire in procedure uniche e in canali di responsabilità anch’essi convergenti”. La possibilità di estendere simili esempi anche ad opere più complesse è in rapporto però coi deficit storici del nostro apparato amministrativo (non solo statale, ma anche regionale e locale). Amato ricorda come in passato l’amministrazione vantasse tecnici di grande professionalità (e io aggiungo corpi tecnici efficienti, come era il Genio civile) e, nel cosiddetto comparto degli enti, potesse contare su altrettanto virtuosi “imprenditori pubblici”. Merce scomparsa, malamente sostituita negli anni da legisti (laureati in leggi) incapaci di comprendere l’opera nel suo insieme e di concorrere consapevolmente alla sua realizzazione unitaria. Il governo Letta – ci dice Amato – dimostra di esserne consapevole, e punta ad esempio sulla nuovissima Agenzia per la coesione territoriale, istituita appena 6 giorni fa per l’impiego dei fondi europei per lo sviluppo regionale. Ottima iniziativa, da seguire e moltiplicare. Sin qui Amato. Le cui intelligenti notazioni aiutano quanti credono in un concreto riformismo amministrativo ad essere moderatamente ottimisti. Moderatamente, però: perché ad esempio, mentre si opera virtuosamente nell’intento di unificare, coordinare, programmare nel coacervo degli interessi pubblici, si decapita la CIVIT a vantaggio dell’ARAN (il che significa un disegno ben preciso di estensione della presa politica sulle amministrazioni), si riapre il rubinetto dell’ope legis (eterna tentazione che attraversa tutta la storia della pubblica amministrazione italiana) assumendo senza concorso o con concorsi riservati e si procede, per così dire, a spanne, senza che sia chiaro il disegno generale di riforma che si dice di voler perseguire. Chiari e scuri, insomma, secondo l’antica regola del bicchiere mezzo vuoto o mezzo pieno.
