BARRUANO, DETTO GIGI, A CENTO PASSI DALLA SICILIA MAFIOSA

Lui, Vito Ciancimino, non l’ha mai saputo di chi fosse quella voce. Ma in piena seduta di Consiglio comunale nel dicembre ’70 dal pubblico uno in fondo alla sala delle Lapidi gli urlò, cantando: “La senti questa voooooce, acaaaaaaasaaaa!”, che in Palermitano si pronuncia acàsa, non accasa, e significava che dopo tre mesi di proteste popolari e faide Dc il sindaco emblema di politica mafiosa e di mafia politica doveva, e dovette, dimettersi.Quella voce che regalò un attimo di corale ilarità a una serata di scontro politico incandescente era di Gigi Burruano: Luigi Maria figlio della Palermo per bene che ha vissuto solo per 69 anni fino a ieri, tumultuosamente con un sorriso amaro sulle labbra sempre attirato come una falena dalla Palermo per male, una volta l’opposizione, un’altra il teatro alternativo, sempre il lumpen-popolino libertario affaccendato dei millemestieri. E come Ciancimino la polizia non seppe mai che a contestare la prima del teatro Massimo dopo la strage di Avola con uova piene di vernice porcellini d’india e ratti di fogna -assieme a Mauro De Mauro armato di bottiglia di whisky- era sempre lui, in prima fila un po’ mascherato da occhiali di cartone senza finalità terroristiche ma per non farsi riconoscere dai parenti: fuggendo dalle cariche mi confidò “pigghiavu a me zzia”, ho colpito mia zia (una signora ingioiellata che andò via dal Teatro prima che finisse la Fanciulla del West con il visone inzaccherato). E io ho sempre pensato che in fondo potrei essere accusato che fui io tra tanti a cominciare a portarlo a mala strada.