SE 70MILA GRIDANO BASTA RAZZISMO

La parola ebreo usata come insulto ha una vecchia storia nel tifo “militante” di ogni curva. E, no, l’antisemitismo non è una cosa che possa essere rubricata nel benpensante “niente politica nel calcio”. Nel 1998, dopo un per me drammatico derby romano infestato da striscioni antisemiti sia della Curva Sud, sia della Curva Nord, scrissi di getto questo commento per la Cronaca di Roma di Repubblica, concetti che mi paiono, purtroppo, ancora validi. Sono uno dei settantamila pavidi del derby. Uno dei settantamila spettatori che di fronte all’orgia di scritte antisemite non hanno fatto nulla. Me ne sono rimasto lì sugli spalti, con la mia sorpresa, la mia ira e la mia angoscia. Dice: ma non lo sapevi? No, non lo sapevo. Non ero pronto. Di solito non vado allo stadio: all’Olimpico domenica sera sono tornato dopo molti anni per felici e fortuite circostanze famigliari. Si sa, certo, che esistono gli ultrà, che le tifoserie sono infiltrate anche da gruppetti neofascisti o neonazisti, ma leggerlo su un giornale è un conto, assistere impotente alle loro imprese in una manifestazione di massa è un altro. L’ atmosfera di eccitazione reciproca, gli slogan, la programmatica irrazionalità e aggressività del tifo offrono uno sfondo ben più pericoloso alle manifestazioni dell’odio e del razzismo. Specie se queste scorrono sui presenti come acqua sul marmo, senza suscitare grande stupore. Il vero scandalo è dato da chi, pur “deprecando”, non riesce più a scandalizzarsi e considera queste cose parte del panorama. Dopo la partita sono piovute le “deplorazioni” e le “dissociazioni” di dirigenti, atleti, giornalisti, gli inviti alla polizia a “fare il proprio dovere” e ai tifosi a “non mischiare la politica con lo sport”. Espressioni non solo tardive, ma sbagliate: l’ uso della parola ebreo come insulto non è una opinione politica come le altre. Si può “deplorare” la presenza di bandiere neofasciste, non si può “deplorare” l’ antisemitismo. Ad esso occorre puramente e semplicemente sbarrare la strada, negare diritto di cittadinanza. La polizia, allora? La magistratura? Facciano senz’altro “il proprio dovere”, ma la repressione di questi fenomeni non basterà mai se intorno non cresce una cultura adeguata. E questo riguarda ciascuno di noi: l’ antisemitismo è un problema di tutti, non della comunità ebraica. Di fronte a battute o scherzi di natura antisemitica (quanti di noi romani nell’ultimo mese hanno udito o usato la parola “rabbino” come sinonimo di “avaro”?), a scuola o in un salotto il singolo può scegliere diverse strade per non farsi complice: mettere pubblicamente a tacere chi sta parlando o andarsene sbattendo la porta. Ma in uno stadio? Andarsene non è possibile. Dare un pugno sul naso ai fascistelli meno che mai. Era però possibile isolarli: in un luogo dove lo slogan è tutto settantamila voci che avessero urlato al momento giusto “Razzismo, basta!”, avrebbero veramente fatto di quei gruppuscoli delle frange isolate senza significato. Ma nessuno lo ha fatto. A me, pur nell’angoscia, non è venuto in mente. E se lo avessi fatto, come avrebbe reagito mio figlio? E come avresti reagito tu che eri dietro a me?