QUARANT’ANNI DOPO, LA 194 FUNZIONA E BENE

QUARANT’ANNI DOPO, LA 194 FUNZIONA E BENE

Calano le nascite ma calano anche gli aborti. La ministra della salute, Giulia Grillo, nei giorni scorsi ha trasmesso al Parlamento la relazione annuale sullo stato di applicazione della legge 194: ebbene, nel 2017 ci sono state 80mila 733 interruzioni volontarie di gravidanza, con uno dei dati percentuali più bassi tra tutti i Paesi occidentali (in pratica ci “battono” soltanto Svizzera e Germania). Un calo di quasi il 5% rispetto all’anno precedente, addirittura del 65,6% rispetto al 1982, anno in cui il ricorso all’aborto toccò un vero picco – ma ci fu anche un vero boom nelle nascite. I numeri in questo caso parlano di politica perché dimostrano che la legge 194 funziona, soprattutto quando funzionano i consultori, e cala visibilmente il numero delle interruzioni ripetute, sia tra le donne italiane che tra le immigrate. Un buon risultato. Tanto più oggi che compiuti i 40 anni dall’approvazione (è del maggio del ‘78) la legge viene messa a repentaglio, attaccata, sotto accusa: che da Verona a Roma nei Consigli comunali vengono presentate mozioni contro le norme che hanno liberato il nostro Paese dalla piaga degli aborti clandestini, delle morti per setticemia, del prezzemolo delle mammane e dei cucchiai d’oro di insospettabili professionisti. Ma la miriade di tabelle che accompagnano la relazione parlano di politica anche perché raccontano di troppi ospedali dove non si pratica l’aborto e di obiezioni di coscienza a volte di massa, di donne costrette ad arrangiarsi, chi cercando in altre regioni, chi… chissà, in un triste ritorno al passato. La ministra dichiara che “non ci sono criticità” anche quando si apre lo spinosissimo capitolo dell’obiezione di coscienza, ovvero: il 68,4% dei ginecologi, il 45,6 degli anestesisti e il 38,9 del personale non medico. I medici-non obiettori – spiega – nelle 44 settimane di lavoro hanno una media di 1,2 interruzioni di gravidanza a settimana. Anche se si passa dalle 0,2 della Val d’Aosta alle 8,6 del Molise… praticamente medici “condannati” a fare solo aborti. Ma che succede in Molise, che è la Regione dove – secondo i dati del Ministero – si abortisce meno che in qualunque altro posto in Italia: dove il rapporto tra numero delle interruzioni di gravidanza e bambini nati segna un clamoroso – 13,4% rispetto solo all’anno precedente (contro il -2,9 a livello nazionale)? La regione dove solo un ospedale su tre accoglie le donne che vogliono interrompere la gravidanza e a obiettare è il 96,4% dei ginecologi, il 71,9 degli anestesisti e addirittura il 99% del personale non medico? Dove ci sono solo cinque consultori in tutta la Regione (la percentuale più bassa in Italia in rapporto al numero di abitanti)… Non dovrebbe essere questo a preoccupare un Ministero della Salute, a smuoverlo, a farlo intervenire? E non solo in Molise, ma in gran parte del Sud (in Campania su 69 strutture solo 19 praticano interruzioni di gravidanza) e in Sicilia, dove su 61 ospedali solo la metà è “disponibile” e dove la storia estrema di Valentina Milluzzo, lasciata morire all’ospedale di Catania perché i medici obiettori per due settimane non hanno voluto intervenire – non finché ci fosse stato un battito nei feti – è diventata anche uno spettacolo teatrale di denuncia. Per tornare ai dati generali, le tabelle del Ministero ci raccontano, comunque, che le donne che abortiscono non sono delle “sprovvedute”: la maggioranza è di donne che lavorano (44%) e che hanno studiato (il 55,5% ha un diploma o una laurea). E qui, ancora una volta, c’è da riflettere se non sono anche le difficoltà di conciliare lavoro e famiglia, la mancanza di servizi, persino il timore di perdere il lavoro o di compromettere carriere appena iniziate, a costringere le donne a scelte che non si fanno mai, mai, senza doloroso tormento.