PER LA RIVISTA “CINECRITICA” SCELGO “CONCORRENZA SLEALE” DI ETTORE SCOLA. ECCO PERCHÉ

Ho scritto questo articolo per “CineCritica”, la rivista diretta da Franco Montini e Piero Spila. In fondo a ogni numero del periodico del Sncci c’è una rubrica, intitolata “Critica & Critici”, nella quale alcuni di noi “indicano un film che li abbia per qualche ragione colpiti”. Non per forza capolavori, anche film sfortunati, sottovalutati, dimenticati. Io, per il numero 92 (ottobre-dicembre 2018), ho scelto “Concorrenza sleale” di Ettore Scola. Qualcuno ricorderà, forse. Nell’ultima scena la famiglia ebrea abbandona l’amata casa nel quartiere Prati. Venduto sottoprezzo il negozio di stoffe, caricati i mobili su un camion, il rassegnato Leone, la moglie Giuditta, i figli e il vecchio nonno salgono e salutano il vicinato. Ma non è “Furore” di Steinbeck o il film che ne trasse John Ford. È l’Italia 1938 delle cosiddette leggi razziali, che poi erano solo razziste, dei futuri rastrellamenti al ghetto di Roma, ed Ettore Scola sembra dirci, senza dirlo, che anche quella famiglia passerà probabilmente per il camino di Auschwitz.Quando uscì nei cinema col marchio Medusa, nel 2000, “Concorrenza sleale” non piacque granché: né ai critici né al pubblico. Fresco era il ricordo di “La vita è bella” di Roberto Benigni, vincitore di Oscar, da tutti osannato e considerato indiscutibile, a parte una piccola schiera di osservatori restii ad applaudire quella “favola” ambientata in un campo di sterminio (ricordo una vignetta impietosa del disegnatore ebreo Art Spiegelman sul “New Yorker”).“Concorrenza sleale” fu dunque liquidato come un film “minore”. Eppure sfoderava un titolo giusto: semplice, allusivo, dalla doppia lettura. Perché, se sleale, all’inizio, è la concorrenza che lo scaltro merciaio ebreo, venditore di abiti confezionati, opera ai danni del contiguo sarto all’antica, tragicamente più sleale sarà di lì a poco la concorrenza attuata dallo Stato italiano, con “Il manifesto della razza” e le discriminazioni che ne discesero, ai danni della comunità ebraica.Erano italiani a tutti gli effetti, avevano combattuto nelle guerre coloniali, pagavano le tasse, contribuivano al benessere della nazione, ma all’improvviso non furono più tali. Privati, in un crescendogrottesco di sanzioni, prima degli apparecchi radiofonici, poi delle donne di servizio (se cattoliche), infine dei diritti fondamentali: il lavoro, l’accesso alle scuole, la parità dei rapporti civili.Alla sua maniera, Ettore Scola, coadiuvato nello scrittura del copione dalla figlia Silvia, da Furio e Giacomo Scarpelli, si immergeva nuovamente in quell’anno cruciale, pure famigerato. L’aveva già fatto con “Una giornata particolare”, raccontando, in forma di kammerspiel, il tenero incontro tra una casalinga e un omosessuale nel giorno, il 6 maggio 1938, della “storica” visita di Hitler a Roma.Gli echi funesti dell’adunata tornano anche in “Concorrenza sleale”.Nelle case e nei negozi dell’immaginaria via Settimiano, ricostruita interamente a Cinecittà da Luciano Ricceri, assistiamo così allo srotolarsi progressivo, “normale”, di un’ingiustizia che in troppi, anchein tempi recenti, sembrano aver rimosso. «Vittorio Emanuele III decreta che nelle scuole italiane non possono essere iscritti alunni di razza ebraica» recita l’ordinanza: per lo shock il figlio del merciaio comincia a balbettare, mentre l’amico per la pelle, cattolico, non potrà far altro che chiedere al papà: «Ma perché?». Appartengono alla stessa classe sociale, uguale è la composizione familiare, eppure non sono più uguali.Il film non è dei migliori di Scola, però è sobrio, un po’ all’antica in certe sottolineature, intenso nell’evocare l’imporsi dell’intolleranza di Stato, e naturalmente sfrutta la simpatia ilare e vitalistica dei bottegaio ebreo Sergio Castellitto per far emergere il carattere dei sarto “ariano” Diego Abatantuono. È lui il vero protagonista di “Concorrenza sleale”, a pensarci bene: l’italiano mediocre iscrittosi al Fascio per quieto vivere, che in un momento d’ira si lascia sfuggire «un ebreo è sempre un ebreo» ma poi avverte, in una chiave quasi pre-politica, la vergogna morale del torto in atto.