SI CHIAMAVA ROSARIO LIVATINO ED ERA UN “ROMPICOGLIONI”
Nel 1989 usciva “Volevo i pantaloni”: non ci fu soltanto la maggioranza dei miei concittadini a rivoltarsi contro di me, c’era la politica, attraverso uno dei suoi maggiori esponenti locali, a dire che ciò che avevo scritto era “frutto di farneticazioni personali” senz’altro autobiografiche. Quel signore, mi confessò candidamente, non aveva letto il mio libro, nel momento in cui affidò le sue dichiarazioni alla TV. Lo querelai, a vent’anni, sentendomi dire che ero pazza (ancora!) a credere di poter far valere le mie ragioni contro il potere che quella persona incarnava. All’udienza non ero spaventata, perché nella Giustizia ho sempre creduto, ma una persona molto importante mi disse che la vedeva brutta per me perché uno dei giudici era un noto “rompicoglioni”. Lo guardavo, era giovane, mi sembrava attento e interessato. Il Tribunale di Agrigento, sorprendentemente, decise che l’influente politico era colpevole e, di conseguenza, lo condannò. Il giudice “rompicoglioni” si interessava principalmente di mafia, ma io questo non lo sapevo. Si chiamava Rosario Livatino e, sì, doveva essere uno di quelli che li rompeva veramente, ai mafiosi, se il 21 settembre del 1990 venne ammazzato in strada, da solo,sulla sua macchina, perché il “rompicoglioni” non voleva neanche la scorta, pur cosciente di essere la prossima vittima designata. Domani morirà di nuovo, “il giudice ragazzino”, avrà per sempre trentotto anni. Per ricordarci che i “rompicoglioni” pagano per ciò in cui credono, che è tanto comodo lasciarli da soli a combattere per quel che, in fondo, è solo onesto, che buttare fango su di loro finché sono in vita è vigliacco almeno quanto ipocritamente piangerli quando non ci sono più. E ricordarli come eroi, puri, integerrimi. Questi “rompicoglioni” io li vorrei in vita. E non vorrei mai più sentire qualcuno rimpiangerli o chiamarli eroi. Da morti.
