IL TRADITORE. BELLOCCHIO FA IL POPOLARE MA È FAVINO-BUSCETTA DA PALMA D’ORO

IL TRADITORE. BELLOCCHIO FA IL POPOLARE MA È FAVINO-BUSCETTA DA PALMA D’ORO

Ilbiopicd’autore, su una ferita sociale tuttora sanguinante, è un genere rischioso. Di più, se la storia da raccontare è quella di Tommaso Buscetta (chi non sa, googli) e cade sotto un anniversario, quello della strage di Capaci, già celebrato alla melassa – gustatevi il Giovanni Falcone adorabile e utopicodreamerche brilla tra i blog della rete. Il Traditore, che sul confronto tra l’uomo d’onore e il giudice punta parte del suo appeal, aggiunge l’ulteriore azzardo dell’intellettuale in cabina di regia. Un vegliardo elitario, Marco Bellocchio, celebrato maestro piacentino, ma mai premiato ai festival – e per questo incazzato -, che stavolta annuncia di aver voluto girare un film popolare. Ecco: popolare, e noi tutti sappiamo come li fanno i film popolari i registi ex e forse ancora non ex extraparlamentari di sinistra. Punto e a capo. Com’è andata? 54 anni dopo il suo indiscutibile capolavoro –I pugni in tasca, grazie sempre per quel film -, Bellocchio sceglie assennatamente di batter cassa su un tema profondamente suo. Quello della famiglia, che un tempo voleva disintegrata. Qui si tratta di una Famiglia metaforica, Cosa Nostra, a sua volta minacciata dalla degenerata Famiglia dei corleonesi, ma il maestro, aiutato da un rodato team di sceneggiatori (c’è pure Francesco Piccolo), risuddivide il tema principale in una serie di sottosistemi: le famiglie reali dei singoli mafiosi. Tommaso Buscetta, per esempio, porta con sé di esilio in esilio e fino in punto di morte il dramma interiore di non aver fatto abbastanza per salvare i due figli maschi, strangolati dai nemici di cosca. La scena finale, quella di Buscetta morente, rivelerà come una matriosca l’evidenza di un altro simbolico disastro parentale, ricongiungendo forse il regista alla sua poco risolta stagione psicoanalitica, influenzata dall’eretico Massimo Fagioli. Per il Bellocchio deIl Traditoreil popolare sta nella costruzione spettacolare, da solido telefilm, degli attentati; nell’uso teatrale delle lunghe scene del maxi processo, che si trasformano in atti di nome e di fatto; nella briglia sciolta che non teme il passo del fotoromanzo ben illustrato (già sperimentato peraltro nell’anticoSbatti il mostro in prima pagina) con bombastiche zaffate di opera lirica nelle scene clou, né il film politico mimetico alla Francesco Rosi d’antan, con i personaggi un po’ sosia e un po’ burattineschi. In tutto ciò, però, a Bellocchio, è capitato un autentico colpo di fortuna. Che è quello che gli salva il film, glielo manda in orbita e intanto che lo vediamo ci fa indignare, incazzare, disperare, financo inumidire gli occhi nelle due ore e passa di proiezione. Tommaso Buscetta è interpretato da un Pierfrancesco Favino gigantesco, pure per mole, capace di andare avanti e indietro negli anni della storia portandosi sulla schiena tutto il peso semantico della narrazione e quello non meno impegnativo della temperatura sentimentale. Capace di giocare coi mezzi toni e di esibirsi come un tenore a gola spiegata, Favino è sempre più padrone del film, ogni minuto che passa. Salvo un Luigi Lo Cascio mafioso mercuriale, non c’è nessuno in campo che gli sta al passo. Gli basta un gesto per farsi seguire negli abissi di un’anima e tra le macerie di una società feroce e corrotta. Quello di mettersi e di togliersi i grandissimi occhiali scuri. I 13 minuti di applausi alla prima di Cannes spettano in massima parte a lui.