LA PIZZICA SCALA IL MONDO
Questa è una storia, tra taranta e pizzica, che ha richiesto tre osservatori per andare felicemente in porto: Carlo Levi, Ernesto De Martino, Sergio Blasi.Il primo ci dà sul finire del fascismo i primi cenni su alcuni strani strumenti musicali come il cupo cupo (o cupa cupa come si dice anche) in cui era incappato al suo arrivo nel paese lucano di Aliano, dove i fascisti l’avevano relegato nel ’43 al confino.Scrive Levi: “I ragazzi, correndo a frotte, lanciavano nell’aria nera i primi rauchi suoni dei cupi cupi. Il cupo cupo è uno strumento rudimentale, fatto di una pentola o di una scatola di latta, con l’apertura superiore chiusa da una pelle tesa come un tamburo. in mezzo alla pelle è infisso un bastoncello di legno. Soffregando con la mano destra, in su e in giù, il bastone, si ottiene un suono basso, tremolante, oscuro, come un monotono brontolio. Tutti i ragazzi, nella quindicina che precede il Natale, si costruivano un cupo cupo, e andavano, in gruppi, cantando su quell’unica nota di accompagnamento, delle specie di nenie, su un solo motivo”.Così Carlo Levi in “Cristo si è fermato ad Eboli” ci fa fare il primo incontro con uno strumento che oggi anima le serate di taranta.I mesi passati ad Aliano, dove poco tempo fa Rocco Papaleo è tornato a omaggiarlo en passant nel suo film “Basilicata coast to coast”, sono stati mesi di osservazione per Levi. Le sue osservazioni sono preziose..Mitica cupa-cupa. E mitica annonica. E mitico flauto. E mitico griko, la lingua con cui cantare la pizzica.Dopo Levi, che pubblicò nel 1945 il suo libro sul confino del ’43, bisogna poi spostarsi al 1959 quanto la troupe etno-antropologica del professore Ernesto De Martino da Roma cala su Galatina, nel cuore del Salento, per studiare ciò che è all’origine di quella strana musica, i tarantolati.De Martino è accompagnato da un medico, una psichiatra, una psicologa, uno storico delle religioni, un’antropologa culturale (Amalia Signorelli), un etnomusicologo (Diego Carpitella), infine, un documentarista cinematografico. Due anni dopo produce per il Saggiatore il celebre saggio “La terra del rimorso”. Trentasette i tarantolati (di cui 32 donne) analizzati dalla sua equipe, per riportare alla luce un mondo oscuro, poco investigato, riscattato dalla sequenza liberatoria fornita dalla musica con cui le vittime del ragno velenoso riescono ad uscire dal maleficio. La pizzica come rimedio a un disagio profondo della società contadina.E poi? Dovevano passare ancora quarant’anni prima che Sergio Blasi, vicesindaco nel ’98 del piccolo comune di Melpignano (2300 abitantii in provincia di Lecce) di cui poi sarebbe stato per dieci anni sindaco, ne ricavasse una geniale intuizione, ricostruire intorno alla pizzica e alla taranta l’identità slabbrata di quella terra che nel Salento pugliese è la zona grika, quella in cui si parla (e si canta) un dialetto che viene dal greco e che nelle notti di taranta fa risuonare oggi i suoi appassionati e dolci versi come quelli di “Agapimu fidela, protini”.Blasi – cinquant’anni d’età, oggi segretario regionale del Pd pugliese, ex bibliotecario a Galatina, era dunque vicesindaco e assessore alla cultura quando decise di lanciare “La notte della taranta” a fine agosto.Un appuntamento musicale ed esistenziale diventato ormai un classico incontro di massa, allegro e festoso ma anche agitato e godurioso, che nel 2012 ha registrato un afflusso di ben 120 mila giovani (secondo la rilevazione della Questura di Lecce), come se Melpignano si fosse improvvisamente moltiplicato per cinquanta volte. Blasi però commenta¨”Secondo me erano molti di più…”.E tutti a ballare, cantare, ascoltare le belle melodie in griko, certamente le più affascinanti del repertorio della pizzica. Come “Agapimu…”, che suona così:“Sto korafaissu ‘ssiànonna linari – dice la canzone d’amore grika più famosa -, ce ‘derlampise mesa sto colorò, sekundu motti skònnete o fengari, atto krovàtti tu òrrio, pereftò. M’ide c’ekàise ‘kau sta chortìa; faristi n’avro sena manechì, Tàrassa, ma so leo ma ti kardìa, ta poia pian ambrò ce a mmàddhia ‘mpì…”.Per capire il testo occorre forse una traduzione, ma la melodia può anche bastare da sola. “Nel tuo campicello – dice comunque il testo tradotto – raccoglievo lino e vidi qualcosa lampeggiare nel verde, come quando si leva la luna dal suo lettino bella, splendida. Tu mi vedesti e ti nascondesti tra l’erba; temesti che io ti incontrassi sola. Andai via; ma te lo dico col cuore, i piedi andavano avanti, gli occhi indietro. Amor mio fedele, primo, pure la notte in sogno ti vedo; mi sveglio e non ti rivedo, e comincio a piangere a lungo. Poni il mio amore nella tua anima com’io l’ho nel mio cuore, perché così vanno le cose nella vita: amare come si è amati…”.Così è il griko, struggente, bucolico, remoto. Di che farne un clamoroso successo, come da 14 anni avviene con i gruppi musicali come i Ghetonìa, gli Aramirè, i Manekà, gli Alla Bua, gli Avleddha insieme ai gruppi più conosciuti della musica etnica nelle notti della taranta a Melpignano. E non solo. Tutto il Salento infatti è ormai disseminato di notti della taranta, come quella di ferragosto a Torre Paduli (Ruffano) dove i pescatori danzano sotto le stelle mimando delle antiche lotte seguendo il ritmo dei tamburelli: è la danza delle spade.Sergio Blasi, sorta di Renato Nicolini del Salento, spiega così la sua fortunata folgorazione: “Vivevamo allora in una delle aree più povere del Salento, diviso tra un’area a nord più industrializzata e una a sud più manifatturiera. La nostra zona, quella grika, era invece segnata molto fortemente dall’emigrazione, in Svizzera e Germania ma anche nel nord d’Italia. Ci siamo guardati attorno e per una congiuntura favorevolissima ci siamo resi conto che in quel momento tutti i comuni della zona grika erano gestiti da amministrazioni amiche, di centrosinistra. Tra Otranto e Lecce sono nove i comuni della Grecia Salentina, Calmiera, Corigliano d’Otranto, Castrignano dei Greci, Martano, Martignano, Soleto, Sternatia, Zollino e Melpignano… Gli abitanti di questi nove comuni sono poco più di 40 mila. Intorno intanto il mondo stava cambiando, proprio la nostra terra registrava ondate di migrazione. Da terra chiusa ci ritrovavamo a terra aperta E allora abbiamo provato ad interpretare questa metafora…Avevamo un patrimonio storico importante, una tradizione di grande valore, abbiamo provato a usare tutto questo per costruire sviluppo. E così ho chiamato gli amici delle altre amministrazioni per associarci su questo tema del patrimonio storico. Ne è nato l’Istituto Diego Carpitella e poi abbiamo chiesto ad alcuni musicisti italiani di provare a dialogare col nostro patrimonio musicale. Il primo maestro concertatore è stato Daniele Sepe…”.In bici, in treno, in autobus, perfino a piedi, arrivano oggi nelle notti di agosto i giovani spettatori del concertone. “Un territorio si ripensa – aggiunge oggi Blasi – e ritrova le sue radici per stare meglio nella globalizzazione. Lo spaesamento della globalizzazione ci dice che si sta meglio quando si tengono i piedi ben piantati per terra. Se uno dice flamenco pensa all’Andalusia, se dice tango pensa all’Argentina, se dice oggi pizzica pensa al Salento”.Agapimu…
