MAURO E I SUOI BAMBINI

MAURO E I SUOI BAMBINI

DI MAURIZIO PATRICIELLOEra poco più di un adolescente quando lo conobbi. Un ragazzo buono, di famiglia onesta. Uno spilungone alto quasi due metri. Presto la parte brutta del quartiere lo fagocitò. Anche Mauro cadde nella trappola. È capitato a tanti. Quando se ne rendono, questi ragazzi, è già tardi. Un meccanismo perverso, un laccio mortale, una di corsa contro il tempo. Si entra a far parte di una banda quasi per gioco, attratti dalla moto potente, dagli abiti firmati, dal cellulare lussuoso, dai soldi in tasca. Invidiati e rispettati. Il modello perverso del boss, il facile benessere, l’assurda convinzione che non sarai mai acciuffato, ancora una volta ha funzionato. La linea di separazione tra il bene e il male si assottiglia. Fino a quando la trappola scatta e tu rimani dentro. E ti accorgi che non sei stato tu a rapinare gli altri, ma la vita a rapinare te. Allora ti affanni, ti disperi, chiedi aiuto, prometti di cambiare. Niente. Le porte del carcere si chiudono alle tue spalle. E tu entri in un altro mondo. Tu dentro, chiuso, impotente; i tuoi cari fuori. Soffri per loro, loro soffrono per te. Il carcere, i suoi tempi, le sue regole, i suoi principi. I cancelli, le guardie, i compagni di sventura. Inizia il calvario, tra avvocati, udienze, processi, snervanti attese. I colloqui. Il desiderio di abbracciare i figli e il bisogno di tenerli lontani da quel luogo. Mauro è in carcere. Vado a trovarlo. Non parla che di loro, dei suoi bambini. Non vede l’ora di ritornare in libertà per rimanergli accanto. È pentito, Mauro, della strada che intraprese. Deve essere tragica la condizione di un genitore in carcere. Quanti rimorsi, quanti rimpianti, quanta nostalgia. Se solo si potesse tornare indietro; purtroppo, indietro non si torna, per questo chi è arrivato prima, ha il dovere di indicare la strada ai figli, evitare che finiscano in una buca o tra le fauci dei lupi. Una corsa contro il tempo. “La vita è mia e faccio quello che voglio io”. Quante volte abbiamo sentito pronunciare queste parole. Non è vero, la vita è mia e non è mia. Siamo anelli di una sola catena. Siamo nati per stare insieme. La tua gioia è la mia gioia, il tuo dolore mi addolora. Le tue scelte coinvolgono anche me, i tuoi figli, la tua gente. Non sempre è facile fermarsi al momento giusto quando si è giovani. Gli istinti, i sentimenti, la brama di avere, di apparire, possono prendere il sopravvento e scaraventarti in un burrone. Hanno bisogno di essere aiutati, i giovani. Gli adulti devono stare attenti, rimanere svegli, umili, non abdicare al dovere di imparare e insegnare a vivere. In carcere, Mauro, si è ammalato. Sottoposto a intervento chiururgico, il suo cuore ha ceduto. È morto a soli 40 anni. Lo avevo incontrato il mese scorso. Parlammo solo dei suoi bambini: la sua gioia, il suo tormento, il suo rimpianto. Rimasi ad ascoltarlo ricacciando indietro le lacrime, la rabbia, la voglia di gridare. “Posso chiamarti zio?” mi chiese. Ti sento più vicino. Abbracciai questo gigante buono e sfortunato. L’ho rivisto in coma. Accanto a lui, Gina, la moglie, gli parla sapendo di non essere sentita. Una domanda ci tormenta: avremmo potuto fare di più? Credo di si. Sempre si può far di più. Giorno del funerale. La chiesa è gremita. Salgo l’altare. Non mi sarà facile coordinare i pensieri per pronunciare l’omelia. Mauro in carcere scontava la sua pena. Giusta, ingiusta? Non lo so, non sta a me dirlo. Si sarebbe potuto curare meglio se fosse stato libero? C’è chi dice di si, lo credo anch’io, ma non ne ho la certezza. Debbo fare attenzione, pesare le parole; sono chiamato a consolare, non a inasprire gli animi. Occorre predicare Cristo morto e risorto. Li vedo. Stanno rintanati come due uccellini sotto le ali della mamma in un giorno di tempesta. Sono loro, i figlioletti di cui Mauro andava fiero e dei quali mi ha parlato e scritto tante volte. Non piangono, singhiozzano, come due ometti cresciuti troppo in fretta. In silenzio. I bambini Gesù li mette al centro. Mi ricorda di fare altrettanto. Mi sussurra di badare a loro. Obbedisco. Predico come se in chiesa fossimo da soli. Mi rivolgo a loro, gli dico che abbiamo due “babbi” uno sulla terra, l’altro in cielo. E che il Babbo in cielo voleva stare un po’ con Mauro. E che adesso da lassù ci vedono e ci vogliono bene. Che papà è orgoglioso di loro, dei loro progressi a scuola, al catechismo, nella vita. E che possono continuare a parlargli nella preghiera. Il dialogo non si è interrotto, è solo cambiato, perché “ più forte della morte è l’amore”. Genny, il più grandicello, annuisce. Ivan, il piccolo, continua a singhiozzare abbracciato alla sua mamma. Qualcuno si aspettava altro. Ma che importa? I bambini, innanzitutto. Sempre. Un pensiero e una preghiera per loro, per Genny e Ivan, così piccoli e già tanto provati dalla vita.