RICORDANDO ZEFFIRELLI
È estate. Lo capisco perché c’è un posto auto libero, nella mia strada. Lo capisco dal silenzio a quest’ora, alle due di pomeriggio. Lo capisco perché non c’è“Quelli che il calcio”, anche se è domenica. Lo capisco perché non so che cosa fare. E allora. Devo farcela. Prima che in questa casa il caldo penetri i muri, entri dalle finestre, stravolga i pensieri, anche quelli più fini. Ma prima, un rito. Un rito di guerra. Un cerimoniale. Raso i capelli a zero. Con il rasoio cinese che costava otto euro e novanta. Levo la plastica, quella per tenere la barba a tre millimetri. Lascio solo la lama. E comincio a tagliare. Non ci vuole tantissimo, tocco con la mano la testa, piano piano sparisce tutto, e ho una testa più o meno tonda, e uniforme. E i capelli ispidi. Li lavo due volte, quei peli cortissimi che restano, col sapone per le mani. Non ho più shampoo. Quasi quasi mi faccio uno shampoo, cantava Gaber. Quasi quasi mi raso i capelli, e sono pronto per la guerra.Ecco. Ho fatto. Niente più capelli. Taglio anche un po’ di barba, già che ci siamo. Poi metto a riposare il rasoio cinese, bravo piccolo. Non riesco a fare andare giù la pancia. Qualche muscolo, invece, sui bicipiti e sulle spalle è venuto. Pochi. Per un inverno di fatiche e sforzi, praticamente niente. Ma almeno non è proprio il disastro. Anche se non ho forza, non ho una forma, non ho un fisico. Una camicia. Quale? Bianca. E i pantaloni quasi eleganti. Perché? Non lo so. Non so dove andrò. Scendo le scale. Non so ancora se prendo lo scooter o l’auto. Se prendo lo scooter, vado al prato dell’Olmo. Prendo l’auto. Ma vado lo stesso proprio lì. All’Olmo c’è un grande prato. Un grande prato sotto il sole. Mi porto il libro e un asciugamano. Ci sono ragazze che hanno steso i loro teli sotto l’ombra degli alberi. Alcune sono in reggiseno e mutande, con i calzini quelli orrendi fantasmini. Che coprono solo la pianta del piede. A due a due, naturalmente. Così parlano fra loro. O con un fidanzato. O con un’amica. Piccoli nuclei atomici, nei quali non si entra. Non entra un elettrone, o un protone, in quelle molecole. Me ne vado lontano. Non ci sono alberi all’ombra. C’è un’ombra piccola, di cespuglio, un po’ più in alto. Vado lì, ma poi non ci sto bene. L’erba è tutta secca. Il sole filtra tra i rami, tanto vale prenderselo tutto. Sotto ci sono le ombre degli alberi con le coppie di ragazze, o di ragazza e ragazzo. Quattro alberi, quattro coppie. Poi un grande spazio vuoto, dove verrà qualche gruppo di ragazzi a giocare a pallavolo. Sopra, io. Ma vado ancora sopra, dove non sono andato mai. Oltre una staccionata. In cima a quella specie di collina si apre un sentiero. Fra gli sterpi. E dopo poco, salendo, si apre uno spiazzo. Dove non c’è nessuno. Solo erba alta, fiori, insetti. Mi metto lì, nel mezzo di quello spiazzo. Deve essere quello dove fanno volare gli aquiloni. Non lo avevo visto mai. Mi metto a leggere il libro in cui Franco Zeffirelli racconta la sua vita. Non sapevo quasi niente. Non sapevo esattamente la storia del suo essere figlio di N.N., come si diceva una volta. Non sapevo quanto amore gli era stato tolto. Quante tragedie familiari. Una madre che soffre, una madre costretta a nascondere il figlio. Una madre non amata dall’uomo che l’ha messa incinta. Vedo come la vita è stata dura anche per quel bambino che era. Sballottato fra una zia che lo amava, una madre che lo amava e soffriva di essere trattata come una puttana, una tata contadina che era un po’ una schiava, in campagna, dei padroni di città. Un ragazzino che aveva imparato presto che l’amore se ne va, che aveva perduto quello della madre morta troppo presto. Scopro un racconto così onesto, così semplice. Non me lo aspettavo. Non so che cosa mi aspettavo. Ma è come se volessi bene a questo ragazzo che, da qualche anno, era solo un vecchio risecchito che aspettava l’inevitabile morte, e basta. È morto ieri, e tutta l’Italia gli rende omaggio, tutti ne parlano, tutti pensano di sapere qualcosa di lui.L’ho incontrato molte volte. Sono stato anche da lui all’ospedale, abbiamo passato insieme dei pomeriggi quando gli stavano lavando una vena della gamba, gli lavavano il sangue, che aveva preso un virus, una cosa tremenda. Ci siamo incontrati a Karlovy Vary, nell’hotel. E la prima volta, la prima intervista importante, la feci con lui. Che mi mandò affanculo. Gli chiesi come mai nel “Giovane Toscanini”, in una scena ambientata in Brasile, parlavano spagnolo, e non portoghese come sarebbe stato giusto. E lui volle interrompere l’intervista. Poi riuscii a riprenderla. Ma la mia carriera poteva anche finire lì. E le volte che mi chiamava la mattina alle otto per insultarmi. E la volta che andammo da lui nella vita sull’Appia antica. Piena di cimeli. Ma quello che volevo raccontare ora non è questo. È che sdraiato sul prato dell’Olmo, con nessuno vicino, su un asciugamano comprato a Capri, nel traghetto che mi portava a Capri insieme a un passato ormai morto, mi scopro come vorrei essere. Un uomo che legge. Un uomo solo, che resiste alla solitudine. Ci sto quasi bene. Bucano, quegli stecchi, disseccati dal sole. E ogni tanto passa un insetto grosso. Lontano si vede Montesenario. In cima. Vado lì? Scendo giù. Compro una bottiglietta d’acqua. Il mio unico acquisto della giornata. Importante.
