TARANTINO PER NON TARANTINATI

TARANTINO PER NON TARANTINATI

Non è semplice intervenire sul film di Quentin Tarantino qualche giorno dopo l’uscita nelle sale italiane. Non è semplice perché il film sta diventando un “caso” critico: su facebook rimbalzano le letture più diverse, come sempre la forbice va dal “capolavoro assoluto” alla “schifezza” – ma per una volta la polemica tracima anche sui media più antichi. I due principali giornali italiani non apprezzano il film (dire che lo “stroncano” sarebbe un’esagerazione) e Marco Giusti, su Dagospia, li sfotte riprendendo il grido di gioia di Fedez (“La critica non conta un cazzo”). È probabilmente vero che la critica non conta un cazzo – nel qual caso anche Marco Giusti si ritroverebbe senza lavoro – ma è assolutamente legittimo che Paolo Mereghetti sul “Corriere” ed Emiliano Morreale su “Repubblica” possano esprimere pareri diversi. A me, per quello che conta, “C’era una volta a Hollywood” piace. Molto. Non moltissimo. Ma non è questo il problema. (Ah, per inciso: scrivo volutamente “C’era una volta a Hollywood” senza puntini di sospensione perché non ho capito dove vanno e perché è più comodo. Sappiate, se vi è sfuggito, che su facebook ci sono anche roventi discussioni sui puntini: dove sono, perché, cosa significano, ecc. Il pianeta sta impazzendo e forse neanche Greta Thunberg lo salverà). Il problema, secondo me, è COSA racconta davvero “C’era una volta a Hollywood”. Dovunque intorno a noi, in rete e sui giornali, ferve la discussione sulle citazioni. Il catalogo è ormai degno di Don Giovanni. La caccia al citazionismo di Tarantino è partita e si arresterà solo (forse) quando qualcuno pubblicherà un libro di 3.000 pagine contenente tutti i titoli di film, di dischi, di telefilm; tutti i luoghi fisici di Los Angeles, i cinema, i ristoranti (come il mitico Musso & Frank che si vede nella foto qui sopra); tutte le marche di birra, di cibo per cani, di oggetti; insomma tutti i riferimenti al 1969 che Tarantino dissemina nel film. Non è più, come potete capire, solo cinefilia. Siamo al feticismo della merce, dove per merce si intende l’esposizione sullo schermo di marchi, di titoli, di pezzi di memoria. “C’era una volta a Hollywood” è un film feticista e per capirlo basterebbe mettere a confronto i piedi di Margot Robbie e i piedi di Margaret Qualley. Eccoli qui. La prima, nei panni di Sharon Tate, si toglie le scarpe al cinema mentre vede se stessa (ossia la vera Sharon Tate) in “The Wrecking Crew”; la seconda, nei panni della ragazzina hippy dall’allusivo (allusivo?) nome di Pussycat, mette i piedi nudi sul cruscotto della macchina di Cliff Booth/Brad Pitt mentre questi l’accompagna allo Spahn’s Movie Ranch. Due inquadrature che sarebbero piaciute a Truffaut, ma sulle quali anche Marx avrebbe qualcosa da dire: il feticismo non riguarda solo la sessualità. Marx… già, Marx: non Groucho né Harpo né Chico né tantomeno Zeppo o Gummo, ma Karl. Chi era costui? Avrà letto Marx, Tarantino? Non lo so. Ma anche se non l’ha letto sicuramente l’ha capito. Vorrei provare a dare di “C’era una volta a Hollywood” una lettura che prescinda completamente dalla cinefilia e che funzioni anche per i “non tarantinati”. Anche perché non sono né cinefilo né tarantinato e sinceramente non mi importa nulla sapere che nella scena qui sopra Cliff chiama Bruce Lee “Kato” perché Bruce Lee interpretava un personaggio con quel nome nella serie tv “The Green Hornet” (che non ho mai visto). Davanti alla scena dello scontro fra Cliff e Bruce Lee, sono morto dal ridere per come la scena è costruita (tra l’altro, un piano-sequenza strepitoso) e quando ho sentito il nome “Kato” ho pensato ai film della Pantera rosa, non a un telefilm degli anni ’60. Uno dei motivi per cui il film mi piace molto ma non moltissimo è proprio l’eccesso di gioco cinefilo nella lunga, prolissa e ripetitiva sequenza sui film girati da Rick Dalton/Leonardo DiCaprio in Italia (trovo delle lungaggini anche nella scena al ristorante con Al Pacino, sprecato in un ruolo ben poco interessante, e nella prima scena di Rick sul set in cui sbaglia le battute – qui sotto, DiCaprio in abito western). Vorrei esaurire il discorso cinefilo analizzando una sola battuta: a un certo punto, in un dialogo fra Cliff e Rick, viene citato Audie Murphy. La domanda è: quanti di coloro che vedono il film al cinema (e sono tanti, gli incassi sono notevoli) capiscono il riferimento a Audie Murphy? Azzardo: il 2%, forse meno. Murphy, eroe di guerra reclutato da Hollywood, era stato famoso negli anni ’50 e la sua fama già declinava nei ’60. Nel 1969, l’anno in cui si svolge “C’era una volta a Hollywood”, gira il suo ultimo film (“A Time for Dying”: sarebbe morto due anni dopo, a soli 46 anni) interpretando il ruolo di Jesse James. Oggi, in Italia, solo vecchi arnesi come noi ricordano Audie Murphy. Da un lato Tarantino mette il suo nome in un dialogo perché sa benissimo chi è e ha sicuramente pensato a tutti gli addentellati possibili, compreso il fatto che nel ’69 la carriera di Murphy finisce; dall’altro Tarantino sa altrettanto bene che pochissimi capiranno la citazione. Ma la fa, perché le citazioni per lui sono il paesaggio, il contesto, l’humus della storia, nonché un’inesauribile fonte di divertimento. Perché Tarantino facendo film si diverte, e che Dio lo benedica. Ma il gusto di rintracciare le citazioni si trasforma, a valle, in un gioco sterile: i cinefili si scambiano le figurine, si sentono bravi per aver indovinato questo o quel riferimento, diventano una setta. Dio ne scampi. Tarantino adora inquadrare i film in categorie “di genere”. A Cannes disse che per lui “Bastardi senza gloria” è “a bunch-of-guys-on-a-mission movie”. “C’era una volta a Hollywood” dovrebbe essere un “buddy buddy”, un film sull’amicizia virile come “Butch Cassidy”. Ebbene, a guardarlo con attenzione non lo è. Pochissimi sembrano aver notato un aspetto cruciale del film: Pitt e DiCaprio non sono QUASI MAI in scena assieme! Una delle poche occasioni è l’intervista tv con la quale il film si apre (foto sotto): una finzione. Nella sarabanda finale – sulla quale vige ancora la riservatezza – Pitt è dentro casa e DiCaprio è fuori, in piscina. Senza svelare nulla, o quasi nulla, nel finalissimo DiCaprio entra finalmente nel mondo dal quale era escluso, facendo un implicito upgrade sociale, mentre Pitt viene portato via in ambulanza dopo che DiCaprio, poche ore prima, l’ha licenziato. Sull’aereo che li riporta a Los Angeles dall’Italia Rick è in business e Cliff in classe turistica. DiCaprio vive in una villa a Cielo Drive e Pitt in un trailer vicino ai pozzi di petrolio e a uno squallido drive-in: il drive-in, tra l’altro, è un segno sociale fortissimo che Tarantino sceglie ovviamente a ragion veduta contrapponendolo al cinema del centro dove Margot Robbie si reca a vedere il film con Sharon Tate. Il personaggio di Pitt è un outsider anche nel suo mondo, quello dei cascatori: perché pensano abbia ammazzato la moglie, ma anche perché ha osato menare Bruce Lee. “C’era una volta a Hollywood” è un film sulle differenze di classe, altro che cinefilia. Tate e Polanski sono in cima alla catena alimentare: lui è il regista più caldo del momento perché “Rosemary’s Baby” è stato un enorme successo e questo vale l’ammissione nel jet-set, come testimonia la scena del party a casa di Hugh Hefner. Rick Dalton sta a metà: è un attore noto in tv ma rifiutato dal cinema, è ricco ma frustrato, punta a un’ascesa che nel 1969, con la New Hollywood in arrivo, è un “ora o mai più”. Cliff Booth è un proletario saltuariamente ammesso al banchetto dei borghesi. Gli hippy sono un lumpen-proletariat che fruga nei cassonetti ma appare minaccioso e violento. Los Angeles è fatta a strati e il passaggio da uno strato all’altro è possibile solo nel contesto fiabesco del finale: non è certo un caso che la scritta “Once Upon a time…” appaia proprio lì, quando per Rick si apre “quel” cancello, “quel” mondo. La fiaba, proprio in quanto fiaba, è amara. Tarantino sa benissimo che prendere una storia vera e tramutarla in fiaba significa rimpiangere ciò che poteva essere e non è stato. Ma la cosa stupenda del film, che non ho visto analizzata in nessuna critica (ma non le ho lette tutte), è che la fiaba permea tutta la struttura del film. “C’era una volta a Hollywood” è un film raffinatissimo proprio perché la struttura narrativa fa continui salti, che Tarantino padroneggia con perizia ormai super-collaudata. Ad esempio, è mirabile come la strepitosa sequenza del duello con Bruce Lee sia una sorta di flash-back non dichiarato all’interno della scena in cui Cliff aggiusta l’antenna sul tetto della villa di Rick. E sono altrettanto bellissimi i passaggi – quasi sempre scanditi da magnifici dolly – da un livello all’altro della storia, da Cliff a Sharon o da Rick ai coniugi Polanski (il passaggio delle due auto sulla stessa curva di Cielo Drive). È squisitamente ironico il modo in cui Tarantino, al ritorno di Rick e Cliff dall’Italia, fa ripartire la voce narrante e scandisce la notte fra l’8 e il 9 agosto con le indicazioni di orari e spostamenti, come a mimare un documentario – o un film-verità – proprio nel momento in cui si distacca totalmente dalla cronaca. Come tutte le fiabe, “C’era una volta a Hollywood” ha una struttura circolare, a loop: e l’unica citazione davvero importante per capirla non è cinematografica, ma musicale. Fra le tante canzoni inserite nel film c’è “The Circle Game”, un brano di Joni Mitchell qui utilizzato nella celebre cover di Buffy St. Marie già presente (sarà un caso?) in “Fragole e sangue”. “The Circle Game” ha una storia curiosa: Joni Mitchell la scrisse negli anni ‘60 pensando al vecchio amico Neil Young, canadese come lei (li vedete qui sotto, in una foto recente). Quello stesso Neil Young che anni dopo avrebbe scritto la canzone più cruda sulla Manson Family, “Revolution Blues” (nel film questa non c’è). La canzone della Mitchell parla del “coming of age”, di un “bambino” (uno dei primi successi di Young fu “I Am a Child”) che compie vent’anni. Il ritornello dice: «And the seasons, they go ‘round and ‘round /And the painted ponies go up and down /We’re captive on the carousel of time / We can’t return, we can only look/ Behind from where we came /And go ‘round and ‘round and ‘round in the circle game”. È la storia del film e del rapporto emotivo fra Tarantino e la strage di Bel Air: siamo prigionieri nella giostra del tempo, non possiamo tornare indietro ma solo guardare a come eravamo e da dove veniamo, e girare girare girare nel gioco del cerchio. La storia di “C’era una volta a Hollywood” avviene lì dentro, nel “circle game”, e tutto è lecito, anche che Cliff Booth faccia a pezzi Bruce Lee. Perché tutto avviene “out of time”, come cantano i Rolling Stones in un’altra canzone che, guarda caso, è nel film. “Baby baby baby you’re out of time”, un verso che può essere letto in due modi: baby non hai più tempo, le tue ore sono contate; ma anche baby sei fuori dal tempo, sei altrove. Ed entrambi questi significati rendono commovente e fiabesca la presenza di Sharon Tate nel film, perché Margot/Sharon ha poco tempo da vivere ma al contempo cammina verso un cinema che non c’è più, a vedere un film con se stessa che, come tutte le opere d’arte, esce fuori dal tempo e assicura l’immortalità.