TRAGEDIA NEL BASKET. IERI E’ MORTO KOBE BRYANT, CON UN PEZZETTO D’ITALIA DENTRO

TRAGEDIA NEL BASKET. IERI E’ MORTO KOBE BRYANT, CON UN PEZZETTO D’ITALIA DENTRO

Ieri è morto Kobe Bryant a 41 anni e tutti sanno come. Pochi sanno che con lui è morto forse un “italiano doc”. Così venne definito 5 anni fa in un suo libro da Andrea Barocci (“Un italiano di nome Kobe”). O meglio, molti sanno che ha vissuto in Italia dai 6 ai 13 anni, al seguito del padre, ottimo giocatore di basket, che ha militato in più di una formazione italiana per diversi anni prima di passare in Alsazia al  Mulhouse. Si sa pure che intorno ai 12 anni Kobe ha partecipato ai campionati di basket giovanili (allora definiti di categoria Propaganda) quando era a Reggio Emilia, dove il padre giocò dall’89 al 91. Ma quasi tutti ignorano l’impegno e il carattere che Kobe dimostrò in quei tempi e che danno un connotato indelebile alla sua identità di cestista. Qualcosa che lo legò per tutta la vita all’Italia e a Reggio Emilia in cui volle tornare per un playground improvvisato e semiclandestino, sufficiente a bloccare il traffico in città. Non solo l’affetto per la nostra lingua, il nostro stile di vita e la Ferrari o il nome tutto italiano dato alla figlia, morta con lui nell’incidente (Gianna Maria). Anche piccoli dettagli tecnici, come il suo cocciuto evitare l’infrazione di passi in partenza in terra statunitense. Una irregolarità ritenuta tale in Italia, ma non negli states. Oppure il ricordarsi che lui i fondamentali li aveva imparati da noi, perché negli Usa ci se ne cura molto di meno. Nel volume di Barocci ci piace ricordare, come particolarmente significativa l’intervista a Mauro Cantarella allenatore di Kobe a Reggio. Nel suo racconto Cantarella sottolinea come Kobe, già a dodici anni, non digerisse le sconfitte, come i ragazzini italiani di allora, molto più grintosi in questo dei coetanei a stelle e strisce. In particolare Kobe non gradì che lui e la sua squadra di Reggio Emilia perdessero la semifinale del Campionato regionale con la Virtus di Bologna. Kobe aveva giocato bene, pure dovendosi confrontare con avversari di un anno più “vecchi” di lui, ma la Virtus, come squadra, era risultata più forte. Di lì a poco tempo ci fu un Torneo per i nati nel 1978, come Kobe, e l’allenatore se lo portò dietro, per rafforzare la squadra. Canestri da minibasket che Kobe poteva guardare dall’alto al basso. Reggio incontrò la Virtus e vinse in un modo che oggi non sarebbe possibile. A un risultato di parità, per quell’età, non seguivano i tempi supplementari, ma i tiri liberi, come i calci di rigore nel calcio e Kobe col suo “rigore” era risultato determinante. Certo il Torneo non era importante come i campionati persi poco tempo prima, ma Kobe sprizzava lo stesso gioia da tutti i pori, come si è sempre usato da parte dei ragazzini, in una regione basketizzata come l’Emilia Romagna, dove la pallacanestro conta più del calcio e in essa più che nel calcio, si manifesta l’amore per lo sport allo stato puro. Racconta Cantarella che il piccolo (si fa per dire) Kobe, andò da lui fuori di sé dalla felicità gridando “Hai visto Mauro? Ce l’abbiamo fatta”, la felicità di un bambino italiano o più propriamente la felicità di un bambino che ha già individuato nel basket una ragione del proprio vivere. Chissà cosa sarebbe successo se Kobe fosse rimasto in Italia? Magari avrebbe incontrato la Virtus 6 o 7 anni dopo e si sarebbe incontrato con quello che negli anni seguenti sarà ritenuto la promessa più grande del basket emiliano romagnolo: Chicco Ravaglia. Anch’egli figlio d’arte e di due anni più “vecchio” di Kobe. Chicco ebbe parecchi incidenti e si riprese solo quando andò a giocare a Cantù, nel 1999. Raccontano le cronache che l’antivigilia di Natale  vinse “da solo” una partita, guarda caso, contro Reggio Emilia. Tornando a casa verso la sua Imola, ebbe un incidente d’auto e morì, a 23 anni. Chissà perché oggi, pensando a Kobe, mi è tornato in mente anche lui.