ECCO IL PERCHÉ DELLA RIVOLTA NELLE CARCERI ITALIANE
Non volevo fare questo post, perché le cose che ho visto oggi pomeriggio non sapevo davvero come metterle per iscritto. Ma, tornato a casa, ho sentito di tre morti a Modena, ho visto sui social tanta cattiveria, e ho deciso di scrivere lo stesso. Perché chi dice certe schifezze deve almeno fare i conti con la realtà. Ero fuori al carcere di Poggioreale oggi. Come in tante carceri d’Italia (Genova, Modena, Pavia, Salerno, Frosinone, Vercelli, Alessandria, Palermo, Bari, Foggia) i detenuti si sono ribellati. Hanno cominciato a battere sulle sbarre, sono saliti sui tetti. Hanno bruciato carta e stoffe, hanno urlato come potevano. La goccia che ha fatto traboccare il vaso? L’emergenza coronavirus su una popolazione già stressata, ristretta, che vive in condizioni disumane. Se la paura del contagio, la necessità di stare chiusi in casa, il terrore di non vedere i propri cari, fa uscire di testa noi “normali”, vi immaginate cosa può su decine di migliaia di detenuti? Le strutture sono sporche e sovraffollate, si arriva anche a dieci in una stanza, le malattie infettive già di solito sono diffuse, bronchiti date da umidità e scarse cure. Se ti ammali puoi aspettare giorni senza che nessuno venga. E il governo non solo non fa niente, non ti smista in altri spazi, non manda la gente ai domiciliari (l’ha fatto persino il cattivissimo Iran con decine di migliaia di detenuti!), ma ti dice: colloqui sospesi fino al 31 maggio. Mai uno stop così lungo nella storia italiana. E non ci sono mezzi per fare connessioni via skype. Permessi sospesi. Udienze sospese. La tua vita che si blocca, solo che tu sei dentro. E rischi di fare la fine del topo, magari morire di polmonite senza aver detto ciao a tua figlia. Lo riuscite a capire o no? La sentite montare l’ansia di uno che sta sveglio tutta la notte mentre sotto il compagno di cella tossisce senza sosta? Dice: ma lo fanno per il loro bene. Ma vi rendete conto che in carcere ci entrano i secondini che vivono il resto del tempo fuori? Con quella promiscuità, ne basta uno positivo per infettare migliaia di persone. La verità è che non lo fanno per il loro bene, lo fanno come gli viene… brutali, indifferenti. Così i detenuti si ribellano, arrivano lì fuori i parenti, e anche noi compagni per cercare di portare un po’ di solidarietà. Ci troviamo in mezzo a una folla di centinaia di persone che ondeggia fra le diverse entrate del carcere, confusa, arrabbiata, disperata, facendo capannelli e disperdendosi per la pioggia, chiedendo informazioni che non arrivano, senza interlocutori, senza direzione. Il sottofondo è l’elicottero che ci ronza sulla testa per ore, a volte abbassandosi fino a sollevare il vento. La prima cosa che balza agli occhi è il gran numero di donne: e come potrebbe essere diversamente? Dentro ci sono i loro uomini. Per un attimo penso che è ironico, è proprio l’8 marzo, ma in effetti per loro la lotta è tutti i giorni. Le donne urlano, provano a salutare i detenuti, a farsi sentire vicine. Battono sulla cancellata a ritmo con loro. Gridano indulto, libertà. Alcune, soprattutto le più giovani, hanno gli occhi lucidi, avidi di qualche sicurezza: si vede che ancora non gli torna questa vita. Le altre sono già vecchie a 50 anni, capelli in disordine, tuta, decise e convulse, si fanno sotto ai carabinieri. Ma – è difficile spiegare come – non per aggredirli, ma a spiegargli, a convincerli, che è uno schifo, che loro non sono bestie, che non si può campare così, che brigadiè nun è possibile. E non si sa da che lato c’è più impotenza. Alcune invece sono vestite da domenica, truccate. Si vede che sono accorse dal pranzo con le famiglie. Bambini di 6 anni appresso, che guardano verso il padiglione dove cascano pezzi di carta che bruciano. Lampade cinesi al contrario, che scendono tristi. Negli occhi dei bambini la stessa traiettoria, tanta innocenza e già tanta ombra, come se questa fosse l’unica vita possibile. Una donna a un certo punto si sente male, accorrono fino a soffocarla. Interviene un pompiere per rianimarla, si fa spazio quasi rassegnato. Un’altra inizia a urlare contro la fila infinita di camionette. Che bisognerebbe appicciarle, dice. Perché siete dei corrotti. “Corrotti, corrotti, mò fanno schifo i detenuti, eh, ma non vi fanno schifo quando vi mettete la 500 euro nella sacca per far passare il telefonino, no?”. Un uomo sui 60 appena uscito di galera fa vedere i lividi dei maltrattamenti subiti. Chiamate i giornalisti, urla. Questo fanno quelli lì dentro. A un certo punto esce il Garante dei Detenuti, che era entrato dentro per vedere la situazione. Rassicura un po’ tutti. Dice che i detenuti sono rientrati nelle celle, spontaneamente. Che per tutto il resto si vedrà, si parlerà… Si alza un boato ma non è chiaro se i detenuti abbiano strappato qualcosa. Non sembra ci sia stata trattativa. Quello che è certo è che non si può andare avanti così. Sapevamo di vivere in un paese fragile, da tutti i punti di vista, economicamente, amministrativamente, emotivamente. Sapevamo che prima o poi sarebbe saltato il sistema. Certo, non ci immaginavamo che sarebbe stato un virus a dirci quanto poco siamo comunità, quanto male funzioni il nostro Stato, quanto è stata distrutta la sanità pubblica… E forse, è per non guardare queste verità, che ci imporrebbero di cambiare, che ora continuiamo con la crisi di nervi: reagiamo sui social senza sforzarci di capire, senza sforzarci di essere umani. Così, tornato a casa, apprendo di ben tre morti a Modena. E leggo i soliti commenti di merda, come domenica scorsa dopo l’omicidio del 15enne Ugo: che i detenuti devono morire tutti, che è meglio se il coronovirus entra e fa una strage. Se, come diceva Dostoevskij, che di anni in galera se n’era fatti quattro, «il grado di civilizzazione di una società si può misurare entrando nelle sue prigioni», penso che oggi nessuno possa girarsi dall’altra parte. Quello delle carceri non è un altro mondo, non ci sono alieni lì dentro: è solo la radiografia del nostro paese. Dove ormai si vede bene l’infezione.
