ADDIO A LUCIA BOSE’, DIVA DI UN ALTRO MONDO

ADDIO A LUCIA BOSE’, DIVA DI UN ALTRO MONDO

In questi tempi strani e dolorosi, nei quali tutti viviamo esperienze che non credevamo potessero esistere, arrivano notizie che rovinano giornate già di per sé perigliose. Oggi 23 marzo, nel giro di poche ore, abbiamo appreso della scomparsa prima di Alberto Arbasino, poi di Lucia Bosè. Non conoscevamo di persona Arbasino, uno dei massimi intellettuali italiani della seconda metà del ‘900, ma conoscevamo benissimo Lucia e la notizia della sua morte è un grandissimo dolore. L’avevamo portata, nello scorso autunno, alla Festa del Cinema di Roma. L’occasione era l’uscita di un libro bellissimo, la sua biografia (“Lucia Bosè” di Roberto Liberatori, pubblicata per Edizioni Sabinae dall’amico, nostro e del CSC, Simone Casavecchia) alla quale aveva riccamente contribuito, e che tiene in mano nella foto che vedete qui sopra. Era stato un incontro – vogliamo dirlo proprio oggi, in un momento così triste – spassoso, perché Lucia era una donna sveglia, acuminata, di una simpatia travolgente. Qui sotto la vedete proprio lì, all’Auditorium, durante la chiacchierata pubblica nella quale l’avevamo coinvolta assieme a Maurizio Ponzi, regista e amico carissimo, e all’autore del libro Roberto Liberatori. Certo, pensare oggi a come cercasse in ogni anfratto dell’Auditorium dei punti dove si potesse fumare suona come una beffa. A vent’anni era stata gravemente malata ai polmoni e aveva dovuto affrontare cure, all’epoca, molto invasive: tra l’altro proprio la grave insufficienza respiratoria, da cui sarebbe rimasta sempre affetta, le impedì – allora e sempre – di lavorare in teatro, perché non poteva reggere uno spettacolo intero. Un conto è fare il cinema, dove si fa tutto un pezzettino alla volta, tutt’altra cosa è stare svariate ore su un palcoscenico. E pensare che a volerla, in teatro, era il fuoriclasse dell’epoca, l’uomo che – pochi lo sanno – è stato suo guru, suo maestro, suo carissimo amico: Luchino Visconti (con lei nella foto sotto). Chi ha letto il libro di Liberatori lo sa, molti altri probabilmente no: fu Visconti, andando a comprare le paste nella pasticceria dove lavorava come commessa, a dirle per la prima volta “Lei ha un viso fotogenico, farà del cinema”. Lucia aveva sì e no 16 anni: era la Milano dell’immediato dopoguerra, e Lucia veniva da una famiglia semplice dove si parlava esclusivamente il dialetto milanese e nessuno aveva grilli per il capo. La vita di Lucia cambia quando un giovane ignoto fotografo, del quale la memoria non ci ha tramandato il nome, invia una sua foto alla rivista “L’Europeo” senza nemmeno dirglielo. La rivista ha lanciato un concorso, Miss Sorriso 1947, e in casa Bosè vedono la foto all’improvviso, tanto che il fratello maggiore le dà un ceffone tale da girarle la faccia, come si dice a Milano. Da quella foto parte però l’offerta di andare alla seconda edizione di Miss Italia, che allora è un evento per il quale il Paese si ferma. Lucia va a Stresa con la mamma Francesca, nel settembre del ’47, e contro ogni pronostico (suo, in primis) vince. E’ un podio pazzesco: seconda si classifica Gianna Maria Canale, terza Gino Lollobrigida, mentre una quarta concorrente – tale Eleonora Rossi Drago – viene squalificata perché già sposata. Nella foto qui sotto vedete la premiazione, con Lucia al centro che finge di bere dalla coppa della vincitrice, la Canale alla sua destra e la Lollo alla sua sinistra. In giuria, a Miss Italia, c’è Edoardo Visconti di Modrone, parente di Luchino: un segno del  destino. Lui si innamora follemente di lei e la invita ad andare con lui a Roma, dove ritroverà Luchino; ma è un uomo sposato, e a un certo punto la diciottenne Lucia deve scegliere fra una vita da “amante segreta” e una possibile carriera nel cinema. Sceglie la seconda, e il suo esordio è incredibilmente rocambolesco. Visconti la vorrebbe per un film che sta preparando ma non farà, “Cronache di poveri amanti”; Giuseppe De Santis è indeciso fra lei e Silvana Mangano per “Riso amaro”, e alla fine sceglie la seconda. Dopo l’immenso successo del film sulle “mondariso” De Santis prepara “Non c’è pace tra gli ulivi” e vorrebbe di nuovo la Mangano, che però ha appena sposato Dino De Laurentiis ed è rimasta incinta; a quel punto Visconti dice a De Santis “perché non prendi la milanese?”, come la chiamano tutti nel giro. “Non c’è pace tra gli ulivi” è un esordio folgorante, seguito quasi subito dai primi due film di Michelangelo Antonioni, “Cronaca di un amore” e “La signora senza camelie”, dove Lucia – pur giovanissima, e di estrazione proletaria – incarna meravigliosamente due donne borghesi molto più grandi di lei. Seguirà una carriera discontinua, di grandi picchi e lunghi silenzi, soprattutto dopo il leggendario matrimonio con Luis Dominguin che lei, ancora oggi, chiamava semplicemente “il torero”: un matrimonio che in Spagna la trasforma in una sorta di “first lady”, perché è difficilmente immaginabile la popolarità di cui gode in quel paese il toreador numero 1; ma che la mette anche in situazioni imbarazzanti, dalle obbligate frequentazioni con il “caudillo” Franco e il gotha della reazionaria chiesa ispanica, fino alla progressiva rinuncia al cinema che è poco degno della “donna del torero”. Ciò nonostante lavora con i Taviani, con Fellini (nel “Satyricon”), con la Cavani, con Bunuel, con Bolognini, con la Duras (della quale, a Roma, ha ricordato ridendo come una pazza la curiosa abitudine di grattarsi perennemente l’inguine – anche se lei ha usato una parola romana un po’ meno edificante), con il suddetto Ponzi e con tanti altri. E’ fin troppo facile dire che Lucia Bosè era bella. Probabilmente, di tutte le belle del cinema di quegli anni, è stata la più bella di tutte. Pur essendo una figlia del popolo, aveva un volto e un portamento da aristocratica – e se esiste un concetto di “aristocrazia proletaria”, lei lo incarnava. Ma quando era diretta nel modo giusto Lucia era incredibilmente brava. In più, e questo è un dettaglio personale che ci perdonerete, era clamorosamente simpatica: non dimenticheremo mai il modo in cui, tutte le volte che ci siamo incontrati, scivolavamo immancabilmente nel dialetto milanese del quale ricordava, sganasciandosi dalle risate, certe parole un po’ buffe (la faceva molto ridere il termine “bamburìn”, ombelico). Nata in una Milano, in un cinema e in un mondo che non ci sono più, ci voleva questo maledetto coronavirus per portarcela via. Ma non va dimenticato che il virus ha colpito un fisico già duramente provato. E comunque il cinema italiano, oggi, è in lutto.