ARMIAMOCI E PARTITE: VIA GLI USA DA SIRIA E AFGHANISTAN, MA LA GUERRA CONTINUA

Vatti a fidare della colomba Trump in versione natalizia. Preannuncio di ritiro totale delle truppe in Siria e della metà delle presenze militari Usa in Afghanistan. A dire il vero con questi annunci, una volta tanto, Trump dimostra una certa continuità con il premio Nobel Obama, che solitamente non costituisce il suo modello. Stesso rumore di fanfare, stessa propaganda ad uso interno, sia per quanto riguarda la pelle dei giovani Usa in missione, sia per quanto riguarda le spese militari del paese, cui dare un taglio serve sempre, per accattivarsi la pubblica opinione. Simili anche le conseguenze concrete, quando si passa dai pronunciamenti ai fatti. La guerra sta finendo, l’Isis è sconfitto, parola di Presidente, ma la guerra continuerà, sperando che siano in pochi ad accorgersene tra coloro che contano. In Afghanistan andrà avanti coi mercenari (diciamo i contractors che fa un effetto migliore). Quella in Siria verrà delegata ad altri. Un film già visto quando il buon Barack auspicava che le spese per le missioni militari entrassero a fare sempre più parte del bilancio di altri paesi della Nato. Un concetto che Donald ha tradotto in termini più rozzi, a lui più consoni senza tradire il significato di fondo “Armiamoci e partite !!!”. Le conseguenze di tali scelte? Almeno una relativamente nuova è costituita dalle dimissioni di colui che rappresentava finora Washington sul piano della Difesa militare: James Mattis, il capo del Pentagono. Che cambiamenti ne possono derivare? Secondo Giovanni Castellaneta, un diplomatico il cui curriculum di ambasciatore, dall’Iran agli Usa, rappresenta il massimo di credibilità, si tratta di problemi soprattutto di metodo. Mattis, da buon militare non sopporterebbe la strategia di Trump, fondata sulla improvvisazione dei tweet, e neppure la delega delle azioni sul campo a forze esterne o alle nuove tecnologie. Così ci informa da formiche. net. Ma sul piano dei contenuti più strettamente politici non si può fare a meno di entrare nel merito. Almeno tre i nodi. A chi verrà delegato il ruolo di supplenza nella tutela degli interessi Usa, sul campo? Come verranno tutelati gli interessi di quelle forze che finora avevano aiutato gli Usa, o per meglio dire erano state fondamentali nella lotta contro l’estremismo islamico? Cosa deriverà ai nostri personali interessi, italiani ed europei, dalla svolta “pacifista” del leader statunitense? Liquidiamo in fretta l’ultimo punto: gli Usa battono cassa e questo ci costerà direttamente (spese militari) quanto indirettamente (danni che ricaveremo da un protrarsi di una guerra delle sanzioni). Inoltre il messaggio suona come un avvertimento minaccioso. Quanto avviene oggi in Siria o in Aghanistan potrebbe rigurdarci più da vicino se gli animi restassero caldi in Ucraina oppure in Libia. O magari continuassero a scaldarsi, come nei Balcani. Sugli altri due punti ci aiuta invece molto a riflettere quanto scrive su tiscali Alberto Negri. Se è vero che in Afghanistan il ruolo di difensore dell’attuale precario governo dovrebbe toccare ad un Pakistan che finora è parso piuttosto simpatizzare per i suoi nemici (Bin Laden compreso), in Siria la delega dovrebbe spettare alla Turchia di Erdogan, riabilitata rappresentante degli interessi Usa, come in tempi passati, dopo un non fugace passaggio sul fronte avverso. Scelta obbligata, se te ne vuoi andare, visto che le alternative, sul fronte dei vincitori, potrebbero essere solamente Putin, Assad o gli sciiti iraniani e Israele porrebbe probabilmente il veto. Da una scelta oramai decisa, pro Erdogan, derivano automaticamente i problemi per coloro che sono stati finora il maggiore sostegno agli Usa contro l’estremismo islamico o che comunque dai turchi più hanno da temere: i curdi e i cristiani d’Oriente. I primi cui gli Usa tanto devono nella lotta all’Isis, di cui più di ogni altro hanno pagato il prezzo, saranno i primi ad entrare nel mirino del sultano di Ankara. Per lui, pur di massacrare i curdi tutto fa brodo: riconciliarsi con l’Isis via Arabia Saudita; fottersene dei servizi forniti agli Usa dai curdi; entrare in conflitto con Assad cui pure converrebbe concertare coi curdi un limitato loro grado di autonomia in funzione anti Jihad. Visto il periodo natalizio Alberto Negri ci ricorda anche un’altra possibile vittima della delega Usa ai turchi: le minoranza cristiane di oriente che, poco alla volta, hanno perso qualsiasi interlocutore. Personalmente non possiamo fare a meno di ricordare l’Iraq di Saddam e di Tarek Aziz, quando un esponente della diplomazia vaticana (Padre Benjamin) ci ricordava la libertà di culto, a Baghdad, di cristiani poi fuggiti verso lidi più accoglienti. Ma lo stesso discorso vale per la protezione ricevuta dai cristiani libanesi grazie a Hezbollah, con buona pace di un dilettante allo sbaraglio in politica estera come Salvini. Oppure da quelli siriani grazie anche a Putin. Con Erdogan la musica cambierebbe, sicuramente in peggio e non si sa fino a quanto. A dispetto delle apparenze, nulla di quanto pronunciato da Trump ha il suono pacifico dei canti natalizi. Solo gli statunitensi potranno gradire che il ridursi delle spese militari possa alimentare maggiori consumi, per le feste e oltre. Ma il pianeta che abitiamo è uno e soltanto uno. Se dovesse saltare per aria i costi potrebbero ricadere anche sui Born in the Usa.