CANDY? UN “DOLCE” AFFARE PER I CINESI

CANDY? UN “DOLCE” AFFARE PER I CINESI

“Haier? È cinese, lascia stare! Prendi Candy invece, vedrai come lava bene!”. Cari i miei patriottici, ormai non potrete più appellarvi alla nazionalità del marchio Candy per difenderne la qualità: i fratelli Fumagalli hanno venduto per 475 milioni di euro il “Dolcetto”. Proprio a giugno tirava aria di rinnovamento, la Candy aveva annunciato un piano di investimenti da quasi 300 milioni di euro in tre anni… ma pare che abbiano preferito intascare il bottino dalla Haier e mollare il malloppo a qualcuno che avesse voglia di gestirlo.L’azienda nasce a Monza nel 1945, quando viene prodotta la prima lavatrice dalla famiglia Fumagalli (padre e tre figli). Nel 55 inizia l’espansione con la prima filiale in Francia, e nel 58 in Germania. Negli anni 60 parte la produzione di lavastoviglie, e dal 70 anche cucine e frigoriferi, per i quali è la prima a utilizzare l’innovativo sistema No-Frost. Nell’85 si espande, acquisendo due marchi italiani, Zerowatt e Gasfire. Nel 2002 esporta ormai in 111 paesi del mondo. Dopo aver toccato nel 2015 i 952 milioni di euro di ricavi e superato il miliardo nel 2016, nel marzo 2017 la società firma una partnership con il gruppo cinese Meiling, quotato alla Borsa di Shenzen: prevede che lo stabilimento di Jinling (acquisito dall’azienda italiana nel 2006) diventi fornitore esclusivo di tutte le lavatrici a carica frontale per conto della nuova società Meiling Candy Corp. Dopo la morte del padre Peppino (uno dei figli del fondatore), scomparso nel 2015, nel 2017 i due fratelli Aldo e Beppe, dopo aver rilevato le quote dei cugini e dei vari eredi, controllano il 90% dell’azienda di famiglia. Fino a ieri.Ma i Fumagalli non sono i soli ad aver preferito la cessione: è fresca fresca un’altra vendita, che va verso ovest però. Versace è stata venduta qualche giorno fa a Michael Kors (Stati Uniti) per 1,83 miliardi di euro. Pare che al brand newyorkese vadano piuttosto bene le cose, dato che un anno fa aveva acquistato pure l’azienda calzaturiera Jimmy Choo.Negli ultimi anni l’Italia ha perso marchi di rilievo: l’anno scorso la bolognese La Perla, dopo una trattativa coi cinesi andata male, è finita in mano agli olandesi di Sapinda Holding B.V. Le sete e i pizzi che hanno fatto sognare donne (e uomini) non ci appartengono più.Vi dice nulla LVMH? Sì, il colosso di Louis Vuitton. Beh, i francesi (oltre alla Gioconda) si sono presi negli ultimi anni anche Emilio Pucci, Fendi, Loro Piana, Aqua di Parma e Berluti. E il suo antagonista (sempre francese) Kering ha acquisito ciò che restava: Gucci, Bottega Veneta (che di veneto ora avrà solo il nome), Brioni, Pomellato e Dodo.E come dimenticare quando Valentino è passata allo sceicco del Qatar, la cui azienda Mayhoola for Investment ha sborsato nel 2012 oltre 700 milioni di euro per averla?I grandi nomi italiani si sfaldano poco a poco, non reggono alla pressione della crisi, della manodopera cinese a basso (bassissimo) costo, della concorrenza spietata nel campo. Nell’epoca pre-globalizzazione gli italiani compravano andando in negozio, al supermercato, nella bottega di fiducia. Si comprava il consiglio, il saluto di Antonio-quello-della-bottega-con-un-ottimo-filo-di-scozia, o il sorriso del commesso del negozietto che vendeva lavatrici e frigoriferi (di sole marche italiane). Ora la gente vuole risparmiare, avere ciò di cui ha bisogno, e averla in fretta. La soluzione? Internet. E internet (almeno per marchi di elettrodomestici come Candy) porta alla distruzione del “Made in Italy”. In rete trovo ciò che voglio, confronto, leggo opinioni, vedo prezzi, e trovo ciò che fa per me. Prima mi fidavo di ciò che mi diceva Antonio del negozio e, al massimo, del commento di una vicina (una sorta di forum online ridotto a un solo componente). Ora ho milioni di opinioni a portata di un clic.