LAURA MORANTE SCRIVE DI BRIVIDI, FACENDOLI VENIRE A CHI LEGGE

LAURA MORANTE SCRIVE DI BRIVIDI, FACENDOLI VENIRE A CHI LEGGE

Ho conosciuto Laura Morante sullo schermo, quando avevo vent’anni. Il film era “Bianca” di Nanni Moretti. Lei incarnava, per Moretti e immediatamente anche perme, la misura dell’eleganza, della compostezza, della bellezza seria, misurata, segreta. Una bellezza che si rivelava solo a chi sapesse rispettarla. Il suo modo di camminare, in quel film, rendeva visibile quella frase di Truffaut: “Le gambe delle donne sono compassi che misurano il globo terrestre, dandogli il suo equilibrio e la sua armonia”. Quella frase l’avevo appena sentita in un seminario di storia del cinema. Mi parve apparire, in tutta la sua evidenza, il giorno in cui vidi “Bianca”. Poi Laura la ho incontrata tante altre volte. Non soltanto nei film. Un pomeriggio mi precipitai a Firenze, all’Hotel de la ville, per una delle prime interviste della mia vita da giornalista. Parlammo di arte, più di arte che di cinema: di Quattrocento fiorentino, e di non so che altro ancora. Tutte le volte che la ho intervistata, abbiamo parlato spesso più di altre cose, che non di cinema. Di danza: la danza a cui lei si era votata, da ragazza; e di come si sia sentita per tanti anni una ballerina prestata al cinema. Di musica: di come recitare sia accordare il proprio strumento a quello degli altri, come se ogni dialogo, ogni scena di film fosse, nel profondo, un incrocio di voci, di suoni. Una polifonia, un controcanto. Abbiamo parlato di cucina, e di tante altre cose. Un pomeriggio andai a casa sua, a Roma. La casa era bella, accogliente, semplice. Sapeva di casa, e ricordo che c’erano tanti colori. Il pomeriggio scorreva con un sapore quasi antico, come a casa di mia nonna, quando ero bambino. Non so dire il perché. Forse perché televisione e computer non la facevano da padroni. Forse perché eravamo in cucina, e perché legno e rame mi sembravano i materiali di cui era composto quell’istante, quel pomeriggio, quel luogo. Di film con lei ne ho visti tanti, inutile dire quali. Ne cito solo due: quello in cui ho sentito la sua voce nitida, precisa, esatta, mentre il suo personaggio si divideva fra l’amore per Bentivoglio e quello per Diego Abatantuono. Il film è “Turné” di Gabriele Salvatores, il più bel film di Salvatores. Ma è la sua voce quella che mi è rimasta dentro. Tanto che, molti anni dopo, nelle prime battute di un cartone animato, “Gli incredibili”, non ho “visto” il personaggio di Elastgirl, ma ho sentito la sua voce. La sua voce che doppiava il personaggio, e poco altro mi importava. E in mezzo, certo, ci sono state le emozioni possenti, terribili della “Stanza del figlio” di Nanni Moretti. E sentire cantare tutti quanti, nell’auto, la canzone di Caterina Caselli, con Moretti che stona tremendamente, e c’è tutto l’amore del mondo in quella scena. Ma adesso leggo i racconti di Laura Morante. I suoi brividi. E scopro una scrittura che assomiglia alla sua voce. Precisa, nitida. L’esattezza del dettaglio. Non ricordo più se l’esattezza fosse una delle doti che Italo Calvino immaginava, come qualità fondamentali per la letteratura di questo millennio. Mi pare di sì. Ecco, l’esattezza è la prima dote dei racconti di Laura. Ho ritrovato adesso, sul web, la definizione di Calvino: “l’evocazione di immagini visuali nitide, incisive, memorabili; un linguaggio più preciso possibile come lessico e come resa delle sfumature del pensiero e dell’immaginazione”. Ecco, probabilmente Italo Calvino aveva letto, molti anni prima, i racconti di Laura Morante. L’esattezza è anche una dote morale: essere onesti verso ciò che abbiamo visto, pensato, immaginato. Cercare di non ingannare chi legge con il fumo di parole vaghe. Essere esatti è non tradire se se stessi, e non tradire il lettore. Essere esatti significa anche scegliere una sintassi semplice, lineare: non caricare la frase di subordinate, come una giornata si carica di un cielo gonfio di nuvole. Probabilmente significa anche aver lavorato togliendo, semplificando, chiarendo ogni periodo, ogni riga. E poi andare avanti, senza fretta, senza nascondere i dettagli, senza saltare i passaggi. Illuminando tutto. E quel tutto sono paesaggi mentali, ossessioni che tutti possiamo avere, ripensamenti, dubbi, tormenti minimali che crescono. O bugie nelle quali ci troviamo costretti a tuffarci, pur essendo persone oneste, come nel primo racconto, “La mia amica Giovanna”. Un racconto in cui l’andamento beffardo delle cose, la minuscola assurdità del destino, si fa strada piano piano, implacabile, come in un racconto di Dino Buzzati. Perché la vita è difficile da comprendere, da possedere, il bene e il male non appaiono mai in evidenza, illuminati da una luce inequivocabile, tutti confondiamo e ci confondiamo. E più di tutto, è difficile conoscere le persone, il loro nucleo profondo dietro le frasi normali, dietro i loro gesti legittimi. Non sono un critico letterario, ma forse in qualche modo sento che questo è ciò che Laura Morante fa: scartavetrare la vernice delle parole e delle azioni, e cercare di coglierne il senso segreto. Scoprendo che spesso la verità è paradossale, beffarda. E volatile: non la si afferra mai davvero. A volte, i suoi racconti sono fotografie di ossessioni piccole, impercettibili, non meno potenti: come in un breve “interludio” (così li chiama) che si intitola “Tristezza per una zucchina”. Dove, come talvolta ci accade nei sogni, un particolare infinitesimale, un fotogramma della nostra vita, assume un’importanza crescente, ossessiva, tanto da occupare tutto il campo visivo del pensiero, come un basso continuo, come un ronzio incancellabile. Quante volte ci è accaduto? Quante poche volte abbiamo letto una pagina che ce lo raccontasse, che ci desse il sollievo di sentirci compresi? Ecco, questo libro a volte ci fa sentire compresi. (Alle 18 alla Feltrinelli red viene presentato il libro “Brividi immorali” di Laura Morante. Io non potrò esserci perché devo lavorare. Ma voi andateci. Io, quello che ho sentito, lo scrivo qui.)