MARINA ABRAMOVIĆ, THE CLEANER. LA PRIMA RETROSPETTIVA ITALIANA A FIRENZE

“Prima di tutto è meraviglioso essere in Italia. L’Italia è sempre stata estremamente importante per me sin da bambina, quando prendevamo, mi ricordo, il treno di seconda classe per andare a Trieste a comprare i jeans, allora da noi c’era il comunismo, non avevamo i soldi ed eravamo ben contenti. Poi mi è bastato venire in Italia, per incontrare le sue bellezze artistiche, sono andata alla Biennale di Venezia, ho apprezzato anche in Toscana la ricchissima cultura italiana ed è qui in Italia che ho fatto le mie prime mostre e performance a Milano, Napoli, Firenze e Bologna. E viaggiando ho imparato l’italiano. Con l’Italia ho molto in comune, perché siete un popolo molto emotivo e drammatico, ma anche inventivo e pieno di coraggio. E questo è molto correlato al mio lavoro. Per quello che riguarda la mostra a Palazzo Strozzi, è una mostra che copre cinquant’anni del mio lavoro. È un lungo periodo e dodici di questi anni li ho trascorsi con Ulay con il quale ho condiviso una storia d’amore e l’attività di lavoro che si è conclusa, la nostra storia, sulla Grande Muraglia cinese. Di questo è stato girato un video che è diventato virale su internet. Sono onorata di essere la prima donna con una retrospettiva a Palazzo Strozzi ma spero di non essere la sola”. Con queste parole Marina Abramović apre la sua retrospettiva che occupa tutto il Palazzo Strozzi e la Strozzina a Firenze. che sarà aperta al pubblico dal 21 settembre per concludersi fino al 20 gennaio 2019. Cento opere selezionate dall’artista tra tutta la sua prolifica produzione, in cinquant’anni di attività artistica, per raccontare il suo universo personale e la sua ricerca nel mondo dell’arte. Una selezione che, come evoca il titolo, The cleaner” è una scelta e una riflessione sulla vita, una sorta di pulizia esistenziale: “Come in una casa: tieni solo quello che ti serve e fai pulizia del passato, della memoria, del destino”. La settantaduenne performer di origine serba ma naturalizzata statunitense, ha iniziato giovanissima. Già dal 1970 usa il suo corpo come strumento artistico e si dedica all’arte performativa. Ma la svolta nella sua vita è l’incontro con l’artista tedesco Ulay. insieme scrivono un manifesto dell’arte, viaggiano e incontrano personaggi fondamentali della cultura internazionale. Insieme creano delle performance che sono diventate storiche come “Imponderabilia” del 1977, dove Marina e Ulay stanno nudi in piedi, l’uno di fronte all’altro, lungo gli stipiti di una porta attraverso cui devono passare le persone. La fine della storia con Ulay viene celebrata dai due in un incontro al centro della Grande Muraglia cinese. Marina prosegue il suo viaggio nell’arte dedicandosi a una ricerca interiore e spirituale. Ha dedicato una delle sue opere performative più forti alla guerra dei Balcani. Con Balkan Baroque, del 1997, ispirato al dramma della Bosnia, Marina vinse il leone d’oro alla 47esima edizione della Biennale di Venezia. “Balkan Baroque, il titolo della mia performance, non si riferiva all’arte barocca, ma al barocchismo e alla follia della mentalità balcanica: il fatto che siamo crudeli e teneri, che siamo in grado di amare e di odiare appassionatamente, e tutto in una volta sola. […] In Balkan Baroque ero seduta sul pavimento del seminterrato del Padiglione Italia, su una catasta di ossa di vacca: sotto ce n’erano cinquecento pulite, sopra duemila sanguinolente, con attaccate carne e cartilagini. Per quattro giorni, per sette ore al giorno, sfregavo le ossa sanguinolente fino a farle diventare pulite, mentre su due schermi alle mie spalle venivano proiettate – a intermittenza e senza sonoro – immagini delle interviste a mio padre e a mia madre: Danica che ripiegava le mani sul cuore e poi si copriva gli occhi, Vojin che brandiva la sua pistola. In quel locale senza aria condizionata, nell’umida estate veneziana, le ossa sanguinolente marcirono e si riempirono di vermi, ma io continuavo a strofinarle: il lezzo era tremendo, come quello di cadaveri sul campo di battaglia. I visitatori entravano in fila e osservavano, disgustati dalla puzza ma ipnotizzati dallo spettacolo. Mentre pulivo le ossa, piangevo e cantavo canzoni popolari jugoslave della mia infanzia. Su un terzo schermo passava un video in cui io, vestita da tipico scienziato slavo – occhiali, camice bianco, grosse scarpe di cuoio – raccontavo la storia del ratto-lupo […]. Raccontavo questa storia in un video proiettato alle mie spalle mentre pulivo le ossa fetide e piene di vermi. Poi nel video guardavo in macchina con aria seduttiva, mi toglievo il camice e, con una sottoveste nera e un fazzoletto rosso, ballavo freneticamente al ritmo di una canzone popolare serba: il numero che si sarebbe potuto vedere in un locale notturno jugoslavo, dove uomini baffuti trangugiavano rakia, rompevano i bicchieri sul pavimento e infilavano banconote nei reggiseni delle cantanti. L’orrore della carne e del sangue, un racconto disturbante, una danza sexy e poi il ritorno a orrori ancora peggiori. Per quattro giorni, sette ore al giorno. Ogni mattina dovevo tornare a immergermi in una catasta di ossa verminose. Nel seminterrato il caldo e la puzza erano insopportabili. Ma quello era il mio lavoro. Per me quello era il barocco balcanico. Ogni giorno, alla fine della performance, tornavo nell’appartamento che avevo preso in affitto e facevo una lunga, lunga doccia, cercando di levarmi di dosso l’odore di carne putrefatta che mi era entrato dei pori. Già alla fine del terzo giorno mi sembrò impossibile pulirmi. Fu allora che Sean Kelly bussò alla porta e con un gran sorriso mi disse che avevo vinto il Leone d’oro come miglior artista della Biennale. Scoppiai a piangere”. Da “Attraversare i muri”.