MUSTO
DI SANDRO MEDICILe donne aspettavano il pane. Il forno era una caverna, c’era un odore caldo: il fornaio sudava e guardava le donne, le loro camicie bianche, gli scialli neri appoggiati sulle spalle. Il profumo e il calore addolcivano le voci, arrossavano la pelle. Le braccia e le bocche, movimenti e parole: l’attesa dei frutti del forno, tanti ragionamenti, qualche confidenza.“Mio marito tiene ancora la bandiera dei socialisti” – diceva Rosina.Musto era tornato stanco quella sera. Aveva cominciato la mietitura e il grano era proprio abbondante, quella stagione. Nelle casa s’era sparsa la fragranza delle spighe al sole e Rosina respirava felice l’odore delle sere d’estate. Il fresco entrava dalla finestra insieme alle luci della strada, alle voci dei contadini e degli animali.Avevano cenato contenti. Poi Musto era uscito per andare da mastro Fonso, l’amico sarto con cui aveva condiviso tutte le battaglie, tutte le speranze. Era stato un incontro malinconico, come ormai succedeva da tempo.“Che dicono i compagni? Come sta Ricciardelli? E l’avvocato?” – aveva chiesto Musto.I lavori alla masseria gli prendevano tutta la giornata, ma non si rassegnava a perdere i contatti con la politica.Le risposte di mastro Fonso erano state crude e rapide: “Neanche alla bottega di Ricciardelli si può stare più; le ronde passano davanti alla porta in continuazione, qualche volta sono pure entrati a minacciare, quei fetentoni!”.Petruzzo Della Germania era una spia e tutti lo sapevano. Tutti, al solo vederlo, s’impaurivano, pensavano alle cose che avevano da nascondere e pure a tutte le altre. E quella storia della bandiera dei socialisti nella casa di Musto era arrivata fino alle sue orecchie e, da lui, alla Milizia.Senzapane aveva accolto la spiata con soddisfazione. Conosceva Musto, conosceva le sue gesta, le sue mani micidiali e potenti. Si ricordava di quella volta che il contadino socialista aveva preso le difese di Nicola il piccionaio, di come riuscì a spaccare la testa al suo amico Vicenziello con un pugno solo.E così Senzapane organizzò subito la squadra per andare a prendere quell’odiata bandiera.Avevano infilato i manganelli alle cinture, avevano levato la sicura alle pistole, s’erano aggiustati le divise e già si avviavano verso la salita del Castello.Nella notte le strade continuavano a essere tiepide, appena rischiarate da luci sofferenti, attraversate solo da qualche gatto. Ma anche i gatti, alla marcia minacciosa di quei dieci scarponi, se ne scappavano con la coda abbassata.Cinque uomini, cinque manganelli, dieci scarponi.“Musto, sovversivo di merda, apri subito, tant’ trasimm’ listess’!” – gridava Senzapane davanti alla porta del contadino.“La bandiera…” – disse sottovoce Musto.Aveva spogliato Rosina e le aveva steso la bandiera sul lenzuolo. Poi aveva aperto.Le galline della casa, ormai sveglie, ciagolavano sommesse.I dieci scarponi avevano aperto tutte le porte, camminato tutte le stanze, scalciando, insultando, guardando nel cassone, nell’armadio, nel soffitto, nella stalla.“Dobbiamo vedere anche nel letto!” – minacciò Senzapane.“C’è Rosina dentro, e mia moglie alla nuda la devo guardare solo io” – aveva risposto il contadino.Ma i dieci scarponi avevano già sollevato la coperta e Rosina aveva strillato di vergogna e paura, e Musto aveva acchiappato Senzapane alla gola. Ma la bandiera rossa dei socialisti si stagliava sotto il biancore della donna e sembrava urlasse tutto il suo ardente colore.Ai dieci scarponi s’era aggiunto un uomo, un contadino socialista ammanettato. Ma il ritorno era una processione, non più una marcia.“Tu non camminerai più la terra!” – era stata la maledizione che Musto aveva lanciato a Senzapane.Era passato un anno. La bottega del barbiere Ricciardelli era stata chiusa. C’erano ancora macchie di sangue alle pareti, sul pavimento le ceneri della stampa socialista, sulla porta un già scolorito “me ne frego” in vernice nera.Il paese si preparava al grano nuovo e le strade erano accarezzate dalla primavera. Le rondini giocavano con l’aria. C’era la festa di Sant’Antonio e Santino ‘u sparafuc preparava i fuochi illuminanti. Li aveva fatti venire direttamente da Benevento, sarebbero stati proprio magnifici e i paesani si sarebbero complimentati. Lo spettacolo sarebbe cominciato alle otto della sera, ma Santino era andato al Vallone a preparare micce e botti fin da mezzogiorno, e non si era neanche portato da mangiare, tanta l’eccitazione che teneva.La messa del pomeriggio c’era stata e il paese aveva pregato il santo.Gli uomini erano vestiti per la festa, con i completi scuri, con i panciotti e i fazzoletti ben in vista. Le camicie erano bianche tese tese, ma alcune a righini sottili; baffi ben pettinati, ognuno aveva in tasca il tabacco buono.Le donne, soprattutto le più giovani, a piccoli gruppi andavano e venivano per le strade, ad affacciarsi in chiesa, a fare le visite: con le calze leggere e gli scarpini con il cinturino.Anche la MIlizia s’era messa la divisa pulita e tutti i distintivi, fasci, teschi e baionette incrociate.La sera era ormai arrivata e il paese si agitava nel passeggio, aspettava i fuochi e si metteva in mostra. Appoggiati alle porte dei caffè, i ragazzi guardavano le giovani donne e sospiravano e commentavano, facendo progetti e scommesse, cercando di catturare l’attenzione sdegnosa delle più belle; qualcuno spingendosi fino al gesto, un saluto, un richiamo. Avanti e indietro, un passo dopo l’altro, tra sorrisi e riverenze, tutti a passeggiare. Sia chi vestiva di flanella o di canapa sia chi vestiva di velluto, tra un gelato e un bicchiere di rosolio, un pensiero e un ragionamento.Anche Musto camminava e ragionava, a passeggio con gli amici contadini. Ogni tanto s’infilava la mano nella tasca per rassicurarsi, per sentire il manico del coltello, il freddo della lama. Era uscito da poco dal carcere e aveva ritrovato Rosina. Ma lei si vergognava di lui, era mortificata perché dieci scarponi l’avevano guardata alla nuda.Tra un po’ sarebbero cominciati i fuochi e tutti si avviavano a vederli, con gli sguardi impazienti e desideranti.E Santino accendeva le polveri: i fuochi di Sant’Antonio avevano finalmente inizio. Mentre scendeva dal cielo la prima luminaria, una coltellata tagliava il petto di Senzapane. Un urlo e poi più niente e poi scoppi e botti.Tra i colori luccicanti, le scintille scintillanti, i bengala di Benevento, nessuno aveva sentito gli strilli di dolore di Senzapane; e tutti continuavano la festa di Sant’Antonio.La mattina dopo, la sera dopo e per altri giorni ancora, la gente del paese fermava Santino ‘u sparafuc per congratularsi. Ma anche a Musto regalava un cenno, qualche parola, un sorriso.Anche Rosina aveva sorriso, ma senza farsi vedere da nessuno.
