TONINO
Da quando la collina s’era spezzata, nessuno passava più per la strada di Macera. I contadini, le bestie, i traini preferivano arrampicarsi dal versanteopposto, una via più lunga e faticosa, pur di evitare la pericolosa pietraia che s’era formata dopo la grande frana.Succedeva però che i cani del paese, chissà perché, si sentissero attratti da quel luogo; scappavano dalle campagne, dalle case, abbandonavano le carovane e andavano a spigolare nei pressi della collina precipitata. E si sentivano urla, guaiti, lamenti. Molti di questi cani non erano proprio tornati, altri s’erano visti correre per giorni e poi schiattare di fatica. Quei pochi che erano riusciti a tornare avevano gli occhi rossi come i lupi neri, sbavavano e tremavano, e avevano la pancia gonfia di paura.Ma c’era anche un uomo, con il suo cavallo carico di stoffe, che preferiva inerpicarsi su quella terra franata. Si chiamava Tonino Tritto, era un venditore di tessuti; e per lui la vecchia strada di Macera era pur sempre il tragitto più breve per raggiungere Lavello. Aveva sì sentito parlare dei cani che impazzivano, e in paese si diceva che gli spiriti avevano fatto scivolare la collina per liberarsi dal peso della terra. Ma Tonino non dava troppa audienza a quel che sentiva. E poi poteva contare su un cavallo eccezionale, Mistràl, che aveva comprato da uno zingaro arrivato a Melfi dalla Transilvania.E in un’alba di novembre Mistràl calpestava la terra franata. Ai suoi fianchi pendevano rotoli di stoffa grigia e blu, mentre la nebbia si smuoveva al suo cammino.Tonino s’era alzato a fatica quel giorno: un sonno pesante di vino ancora lo stordiva, la testa ciondolava e barcollava. Neanche il pensiero della buona vendita, che avrebbe sicuramente premiato il suo viaggio a Lavello, lo scuoteva più di tanto.Mast’Elodia, la sarta della guarnigione, quella mattina avrebbe comprato la flanella grigia e il panno blu. Il venditore di stoffe si sarebbe intrattenuto nella sartoria e lei gli avrebbe offerto il liquore di ciliegia. Sarebbero poi andati nel retrobottega a provare i calzoni, lei si sarebbe inginocchiata per acconciare il risvolto, e lui avrebbe potuto guardarle la nuca, forse accarezzarle i capelli.Quel tenero pensiero di mast’Elodia era l’unica cosa che un po’ lo svegliava; qualche brivido assonnato gli attraversava la schiena.Mistràl, mast’Elodia, un respiro cocente di vino, un odore di morte: Tonino Tritto si stringeva al collo del cavallo. Sulle zampe scalpitanti, Mistràl urlava e s’impauriva, s’infuriava e urlava ancora. Un turbine di nebbia e fuoco, di polvere, zolfo e sassi, come un albero dell’inferno, era spuntato proprio alla svolta della cima, dove finisce la salita. Voci acide si diffondevano, lamenti e strascinamenti, un mormorio di pietre rotolanti, luci senza sole.Altri due mulinelli maligni e graffianti avevano avvolto il venditore, sempre là dove la collina ormai scende e la frana finiva. Ma aveva resistito a quei risucchi; il suo coraggioso cavallo aveva spinto e tirato e infine erano passati.Mistràl s’era perso tutti e quattro i ferri agli zoccoli. Tonino aveva una mano bruciata e un livido nero sulla spalla. Ma non aveva detto niente in paese, neanche agli amici della cantina.A mast’Elodia aveva raccontato che il suo cavallo della Transilvania era un animale magico e per questa ragione una forza misteriosa gli aveva rubato i ferri. Le aveva rivelato che Mistràl era lo spirito di un marinaio che un giorno era partito da Costanza e poi nella moschea di Costantinopoli s’era sollevato da terra per volare verso il cielo. La sarta della guarnigione aveva allora promesso che avrebbe pregato la Madonna affinché l’anima del marinaio ritrovasse finalmente la pace e i ferri del cavallo venissero infine ritrovati: altrimenti, sciagure e sventure non avrebbero mai abbandonato cavallo e cavaliere.La mattina del primo martedì del mese Tonino Tritto doveva tornare a Lavello, per andare a vendere lane e cotoni al mercato.Ma la notte precedente aveva sognato un marinaio con i baffi neri e gli occhi azzurri, che aveva detto di chiamarsi Lupis e di essere partito un giorno dal porto di Costanza e di aver volato nella moschea di Costantinopoli. Gli era apparso con un libro aperto in mano, alla luce svelata di una candela. Gli aveva anche suggerito che per ritrovare i ferri perduti, l’indomani mattina, quando sarebbe apparso il mulinello maligno, doveva scendere da cavallo e recitare una filastrocca. Non solo, aveva detto Lupis, il cavallo avrebbe riavuto i suoi ferri agli zoccoli, ma ci sarebbe stato anche un tesoro per il cavaliere. Poi il marinaio aveva chiuso il libro, spento la candela e se n’era volato sul pelo delle onde del Mar Nero.Alla mattina, che era ancora buio di notte, Tonino s’era svegliato con meraviglia. Lui, il marinaio diventato cavallo, se l’era inventato per farsi bello con mast’Elodia, e quello invece non solo gli era venuto in sogno, ma aveva anche un nome, Lupis.Il venditore di stoffe non si ritrovava proprio, ed era anche un po’ impaurito. Che cosa gli stava succedendo?Per quella mattina aveva deciso di andare a Lavello prendendo la strada più lunga, quella dall’altra parte della frana. Però quel sogno di mari lontani l’aveva suggestionato: Lupis aveva parlato di un tesoro. Forse era stata la Madonna invocata dalla sarta della guarnigione a fargli sognare il marinaio. E se era stata la Madonna, allora andava esaudita, bisognava crederle: il tesoro poteva esserci veramente.Con questi pensieri Tonino Tritto preparava il cavallo, lo caricava di stoffe e speranze. Un pezzo di pane, qualche castagna e una mattina appena nata.Avrebbe preso la strada vecchia, quella con i sassi e gli spiriti. E così s’incamminò con la confusione nella testa e la paura nel cuore.La svolta maligna, dove poi la strada cominciava a scendere, era ormai a qualche passo.Sarebbe spuntato l’albero dell’inferno? Era quel che si chiedeva Tonino, mentre respirava l’aria secca e fredda e la bocca si riempiva di sapori amari.Come la luce di un lampo, una palata di sassi polverosi si sollevò e un acido stridore s’impennò.Incurvato, cercando di difendersi con le braccia sulla testa, il venditore di stoffe era sceso da cavallo e un vento pungente era lì a graffiarlo.Senza cavaliere e con gli occhi arrossati, Mistràl precipitava lungo la pietraia, si feriva, nitriva disperato; le stoffe s’erano sperse e sparse e rotolavano sempre più giù.Tutto raccolto intorno alle ginocchia, Tonino Tritto aveva cominciato a masticare una filastrocca sconosciuta, che non aveva mai sentito, ma che era sicuro fosse quella che gli aveva insegnato Lupis:I’ t’attacc’ e non t’assogl’pecché acsì te vogl’Scapp’ e scapp’ e non te vota’fin’a ‘ché a ru salv’ t’aia truva’Guard’ ‘n terr’ iè lucent’mittle ‘n gudd e no la perd’E tra il vortice accecante e gli odori anneriti, un sasso lucente mandava un leggero bagliore. Ma il venditore di stoffe non si mosse, restò accocolato aspettando che gli spiriti si placassero.Il sasso lucente era una pietra nera lucida, un po’ squadrata. Mani caute e doloranti l’accarezzavano, occhi bagnati ma eccitati l’esploravano. Al centro, perfettamente scandito, c’era il segno di luce, un diamante brillante lucccicante. Disteso tra i sassi, Tonino Tritto guardava e rimirava quel tesoro: pensava a Lupis il marinaio, alla Madonna di mast’Elodia, agli spiriti della collina.Se ne tornava indietro, a piedi e un po’ zoppicante ma con lo sguardo illuminato. Incrociò i traini dei contadini che andavano verso i campi; qualche saluto, qualche cenno al cavallo che se n’era scappato, ma neanche una parola sul tesoro trovato. Poi a dormire, a lungo, fino al giorno dopo, sognando ancora mari e moschee, una Madonna azzurra e un cavallo che galoppava.Passarono tre giorni. Alla terza mattina Tonino Tritto aveva sentito un trotto familiare e allegro. Davanti alla sua porta c’era Mistràl, impolverato ma sorridente. E con tutti e quattro gli zoccoli ferrati.
