IO SPERO PER UN ATTIMO CHE SI MOSTRI DIO IN QUESTA CHIESA CHE NON È MIA

IO SPERO PER UN ATTIMO CHE SI MOSTRI DIO IN QUESTA CHIESA CHE NON È MIA

Poi ho ripreso lo scooter, e a destra ho visto la chiesa ortodossa aperta, e tutta illuminata. E allora mi sono fermato, e sono entrato. Cantavano, cantavano. E certamente ci credevano più di noi. C’erano delle donne tutte con il velo. E con un cero in mano, lo tenevano come se tenessero Dio. Tra le mani. Un piccolo dio di cera. E avevano le scarpe da tennis, e quello strano modo di stare gobbe e miti, con le braccia nude e quell’aria da contadina russa, tutte. Anche quelle bellissime di vent’anni che passavano, perché nelle chiese russe si sta in piedi, e ci si può muovere. Non come in quelle cattoliche, dove stare fermi è quasi imprescindibile. Mi è sempre piaciuto che ci si muove, nelle chiese ortodosse. E poi quei canti, cantati con tanto impegno, e tanta gloria per Dio. Certo, questi sono gente che sono anche capaci di ammazzare. Putin va alla messa, e ci va come una rockstar, va sull’altare. O almeno così mi sembrava in un video. E poi dà ordine di ammazzare ceceni o prigionieri politici. O forse mi immagino anche questo, ma ho idea che sia uno dei peggiori e più sanguinari leader politici di questo secolo. Ma è così bello vedere questa chiesa, queste donne che si fanno il segno della croce ogni minuto, in un modo diverso da come lo facciamo noi: con le ali orizzontali della croce invertite, prima a destra e poi a sinistra. C’era un bambino che dormiva sulla spalla di suo padre. C’era un uomo alto con i capelli a spazzola, tipo cattivo nei film di 007 o tipo il pugile interpretato da Dolph Lundgren in Rocky 4, “io ti spiezzo in due”. C’è uno tutto serio in giacca che legge un piccolo breviario e si avvicina a quattro campane, e le fa suonare, un suono lancinante che mi strappa i timpani. Campane di bronzo o di ottone lì, all’ingresso della chiesa! E io, con la custodia della chitarra come fosse un fucile sulla schiena, arrivato a fine cerimonia come un terrorista ceceno, o siriano, o egiziano, o di quel quartiere di Bruxelles dove crescono i terroristi. Io, che spero per un attimo che si mostri Dio, in questa chiesa che non è mia, ma io non ho una chiesa mia, non ho qualcuno con me, non devo niente a nessuno. Io che spero per un attimo che si mostri Dio qui fra questa gente che canta, e fra queste giovani ragazze che sembrano angeli, e poi diventeranno ancora belle, ma sfiorite, spente. E comunque sposeranno uomini con i soldi, li guarderanno quegli uomini con i loro occhi da angelo e poi faranno quello che devono. Spero per un attimo che si mostri Dio. Poi esco dalla chiesa, ci sono due zingari al cancello che chiedono soldi, io mostro le mani nude, per far capire che non ho niente, ed è anche vero, ma mi sento in colpa per non dare soldi e per aver paura di quel piccolo agguato. E così inciampo nel selciato, la bolla d’aria, di suoni e di amore per il mondo che avevo si rompe. E la zingara dice “fare attenzione”, in italiano, con un tono quasi amichevole, e mi sento ancora peggio. Riprendo lo scooter, arrivo a casa. Tu che hai fatto, mamma? Qual è stata la tua giornata? Hai delle giornate? Sei nell’infinito del tempo, sei nel prima e nel dopo, nell’oggi e in tutti i giorni che saranno, sei ridiventata la materia pensante del mondo? Oppure, come temo, non sei più niente, e solo per questo hai smesso di soffrire.Hai vissuto novant’anni per morire piena di paura, come una bambina. Hai vissuto novant’anni nel timore, quatta quatta, piano piano, per morire lo stesso. Per morire lo stesso, in un letto d’ospedale, dove non volevi morire. Ma io ti volevo riportare a casa, perché non lo hai capito? Perché non ti sei fidata di me, che non ti lasciavo? E perché non ti ho abbracciato, quelle ultime notti? Potevo farlo, era semplice, eri leggera come un pulcino, come un maglione estivo, come una busta di patatine. Eri fragile. Potevo abbracciarti quando volevo, in tutti questi ultimi tuoi lunghissimi anni fatti di silenzi e di niente, e non l’ho fatto abbastanza.