LE VENE E I POLSI (NON AI POLSI), PROF DELLA LOGGIA
I modi di dire sono modi dire, parlando capita di arronzare. Ma se li usi in un editoriale di prima pagina, come fa il professore Ernesto Galli della Loggia oggi sul “Corriere della Sera” in riferimento ai discussi accordi commerciali con la Cina, allora bisognerebbe maneggiarli con cura. L’illustre storico scrive infatti a un certo punto del suo lungo ragionamento (e nessuno passando il pezzo corregge): «Nel nostro futuro insomma si profila una situazione da far tremare le vene ai polsi». Dov’è l’errore? Che si dovrebbe dire e scrivere «le vene e i polsi». Sembrerà strano, ma così scolpì Dante nel Canto I del suo “Inferno”: «Vedi la bestia per cu’ io mi volsi; aiutami da lei, famoso saggio, ch’ella mi fa tremar le vene e i polsi». Spiega bene l’Accademia della Crusca: «Polsi significa in questo passo “arterie”, perché deriva da pulsum, participio passato del verbo latino pello, che significa “batto”. Il sostantivo pulsus già in Tacito è assimilato al battito cardiaco: lo storico latino usa la locuzione pulsum venarum attingere col significato di “tastare il battito delle vene” cioè “tastare il polso”. L’espressione “le vene e i polsi” indica dunque i vasi sanguigni, le vene e le arterie, e va letta come una dittologia sinonimica: le due parole, in sostanza, sono assunte come sinonimi. Le varianti “far tremare le vene ai polsi” e “dei polsi” sono quindi semplificazioni errate, una sorta di lectio facilior, dell’espressione dantesca». Così, tanto per la precisione.
