PERCHÈ UN SENATORE A VITA

Siccome qua e là sulla stampa e sui social è comparsa la notizia di una mia idea lanciata nel corso di un incontro milanese, e cioè che il Quirinale nomini un senatore, o meglio ancora una senatrice a vita, scelti tra coloro che vissero la tragedia della foibe e il dramma dell’esodo, voglio spiegarmi meglio.E’ un’idea, non una proposta. Non sono un politico, né un intellettuale da appelli, non raccolgo voti né firme, e rappresento solo me stesso. Non mi attendo risposte né organizzo mobilitazioni. Aspetto e basta, limitandomi a ricordare che gli anni passano e i sopravvissuti non sono più ragazzi e ragazze.Perché ho detto quello che ho detto in quell’incontro di Milano ? Intanto perché ho a cuore quella vicenda, per ricordi familiari e per essermene occupato in tempi non facili, e persino su pagine non devote alla causa, quale era il quotidiano Lotta Continua.Perché credo che l’istituzionalità del Giorno del Ricordo possa essere impersonificata in qualcuno tra i tanti esuli che hanno ricordato quando era difficile farlo.Perché sono convinto che non si tratta di fare un’algebra dei dolori. L’olocausto (con la Giornata della Memoria e il ruolo della senatrice Liliana Segre) resta un fatto storico unico nel suo orrore, per le dimensioni e la pianificazione industriale tesa a cancellare la presenza del popolo ebraico dall’Europa. Questo, come sanno bene gli esuli, non cancella la necessità di ricordare altri drammi, dal genocidio armeno a Srebrenica, e a maggior ragione quando riguardano altri italiani.Perché non credo che l’omaggio di una nomina che significherebbe acquistare alla memoria nazionale una tragedia ancor oggi oggetto di negazionismi sia la ricompensa, comunque tardiva, a una parte del Paese che molto ha sofferto, in silenzio. Certo, è anche un ricordo delle vittime, e i giuliani, gli istriani, i dalmati lo sono stati a più riprese. Sono stati vittime del fascismo, delle ingiustizie del nazionalismo italiano nei confronti dei popoli slavi e dell’avventura bellica del fascismo: alla fine hanno pagato loro il conto, mentre i veri colpevoli se l’erano già data. Hanno pagato il solo fatto di essere italiani. E hanno pagato, accolti in malo modo da una patria matrigna, al momento dell’esodo, le giravolte di noi connazionali, spesso partigiani del 26 aprile, pronti ad additare loro come gli eredi del fascismo, e noi valorosi aggrappati al carro dei vincitori. Hanno pagato con i loro beni i debiti dell’Italia sconfitta, ricevendo umilianti risarcimenti, quando li hanno ricevuti. Sono stati vittime del comunismo titino e del comunismo italiano, che con esso ha volenterosamente collaborato: nelle fosse comuni finirono anche migliaia di slavi, e non solo ustascia o domobranci, ma anche preti, cittadini qualunque che non accettavano il comunismo. Sono stati vittime del nazionalismo slavo, mascherato da rivoluzione proletaria: nelle foibe sono finiti non solo uomini in divisa, ma donne, impiegati, insegnanti, perfino qualche socialista e qualche membro del CLN, e che io sappia anche un ebreo reduce dai campi di concentramento, e molti di essi a guerra finita. Sono stati vittime del nazismo: un superiore di mio padre, che era brigadiere a Fiume, morì in un campo di concentramento, dopo aver salvato migliaia di ebrei a Fiume(si chiamava Palatucci, è stato Israele a scoprirne la memoria, in Italia non rispondeva ai canoni resistenziali…).Ma non vorrei che si “premiassero” gli esuli come un abbraccio penoso al loro ruolo di vittime. Vorrei li si premiasse come italiani. Per come hanno saputo ricostruire le loro vite, in Italia e lontano, senza trasformarsi in profughi di professione, continuando ad amare una patria che non li ha amati, accarezzando i propri ricordi senza revanscismo, mantenendoli vivi senza rancori ma anche senza sconti, intrecciando rapporti leali ma franchi con quelli che erano rimasti e con le nuove autorità: una pace che non è generico buonismo, che non è oblio irenista né perdonismo smemorato. Hanno avuto dalla loro parte solo la destra italiana, e questo è servito ad etichettarli di nuovo: a volte mi chiedo cosa penserebbero i miei genitori, che di destra non sono mai stati e che non ci sono più, davanti a un corteo di Casa Pound che ne difende la memoria, a un corteo a Macerata che li offende, alla politica che chiede loro di prendere le distanze dagli unici che li hanno sostenuti. Li manderebbero tutti a quel paese. Manderebbero a quel paese tutti quelli che ignorano la storia per il solo fatto di non averla vissuta, o di volerla piegare, come un tornio, alla propria ideologia. Le parole sono pietre, anche quando le pronuncia una sezione dell ‘Anpi. Anche i voti sono pietre, come sa un ex sindaco di Milano che votò contro l’istituzione del Giorno del Ricordo. Per fortuna le pietre- archi o campanili, anch’esse sono parole: andate a Pola, scendete in Dalmazia, a Sibenico o a Spalato o a Ragusa, e raccontatevi di nuovo che gli italiani erano occupatori fascisti. I mobili no, non sono come le pietre. Anni fa scrissi per una rivista diretta da Oreste del Buono un lungo reportage sul magazzino 18, nel porto di Trieste, dove rimangono le mobilia dell’esodo. Allora non lo conosceva nessuno (erano gli anni ’80). Amareggiato, conclusi quell’articolo con la surreale proposta di fare un grande falò in piazza Unità di tutti quei ricordi, e citai un proverbio istriano che suona più o meno così: è meglio ridere di se stessi, ridersi addosso, che pisciarsi addosso. Per fortuna non è andata così, altrimenti il bravo Cristicchi non avrebbe potuto conoscere quella storia e ricavarne un lavoro prezioso. Per dire che non sono tipo da proposte: dico la mia, e aspetto.