UN DISPLAY SUL MONDO. PERDERE IL CELLULARE PER RITROVARE SE STESSI
“Chi perde il cellulare può ritrovare la vita. Con gli occhi sempre sul display perdiamo di vista il reale. Sempre connessi, ma anche tanto soli”.Sono trancianti ma fondate le parole pronunciate da Violante Placido e Paolo Ruffini di fronte alle telecamere di RepTv, intervistati in occasione dell’uscita del nuovo film di Fausto Brizzi che li vede protagonisti insieme a Lillo, Dino Abbrescia e Caterina Guzzanti.Gli smartphone che possediamo stanno finendo man mano per possederci: suonano quotidianamente i campanelli che ci mettono in guardia da questo apparentemente ineluttabile destino; dalle trasmissioni televisive ai videoclip, dai documentari ai film e alle serie tv, i cui protagonisti sono immersi in futuri distopici dove queste piccole scatolette nere hanno preso il sopravvento. E basta guardarsi intorno per scoprire che gli scenari rappresentati non sono poi così distopici: gente che vaga tra le corsie dei supermercati apparentemente senza meta, in realtà solo distratta dal soggetto con cui sta portando avanti la propria conversazione al di là del display; auto prossime allo sbando mentre il guidatore di turno stava mandando un “semplice vocale”. E poi panchine nei parchi, ristoranti, pub. Selfie, Tweet, navigatori satellitari, sveglie, orologi, aggiornamenti di status sui social network… E quel “basta saperli usare” che risuona come un motivo sempre più stantio, sempre più stanco per l’incapacità di affermarsi in una realtà dove forse fino a qualche anno fa ancora poteva trovare una propria collocazione. Ma più passava il tempo, più quello spazio si restringeva, fino ad arrivare ai giorni nostri, dove è divenuto impossibile pensare di poter gestire una situazione che ci è letteralmente sfuggita di mano. Come del resto era inevitabile che succedesse: quelle scatoline elettroniche ci permettono di scattare foto, chiamare dall’altra parte del pianeta, leggere le notizie in tempo reale. Il risultato è un’euforia, un senso di onnipotenza dovuto alla consapevolezza di poter essere qui e altrove; distanti e vicini allo stesso tempo. Un’ubiquità, tuttavia, che finisce presto per alimentare quegli insani meccanismi che già a suo tempo la cultura occidentale aveva attivato: ansia, controllo, fretta, angoscia dell’abbandono. Fastidiosi malesseri cui il poter raggiungere e parlare con chiunque in ogni momento fa da pezza bagnata con cui tamponare la febbricitante fronte dell’uomo moderno.Senza, tuttavia, offrire un vero antibiotico in grado di eliminare la malattia alla sua radice.
