GLI OCCHI
Gli occhi. Gli occhi con cui ho guardato “Le castagne sono buone”, un film del 1970, insieme a mia mamma. Gli occhi con cui ho guardato un film con Marilyn Monroe, ancora prima, avrò avuto quattro o cinque anni, insieme a papà. Gli occhi con cui ho guardato il manifesto di 007 al servizio di Sua Maestà, nel 1968, o forse 1969. Gli occhi con cui ho guardato la stufa a legna, di ghisa pesante, nella cucina della nonna. La cucina dove c’era il macinacaffè di legno, si mettevano i chicchi interi e poi si girava e si girava. La cucina meravigliosa dove io toccavo il riso, con le mani piccole, per scoprire i sassolini che eventualmente ci si fossero nascosti. Gli occhi con cui ho visto la prima volta la Bianchina Innocenti color blu di papà, che la aveva appena comprata dalla concessionaria, 1967 anche quella. Durò solo due anni, probabilmente. Lui la amò con tutto se stesso. Gli occhi con cui ho guardato per la prima volta Anna Maria, mentre studiava sui tavoli verdi della biblioteca dell’università, pensando che aveva un viso perfetto, un misto di malinconia e mistero, di dolcezza e luce, un viso che mescolava il nero dei capelli e il verde trasparente degli occhi in un modo che non ho visto mai più, o forse l’ho visto mille altre volte, ma ormai non era più la stessa cosa, gli occhi con cui ho visto salire su dalla salita del parco della Montagnola a Bologna il volto di Elisabetta, e la sua aria da hippie; se non avessi avuto la vista non l’avrei potuta amare nello stesso modo, forse avrei amato di più le parole, o la musica, forse avrei capito di più le emozioni della gente, ascoltando solo il suono del loro respiro. Ma non avrei avuto i colori del ciclamino che sta qui fuori dal balcone, l’emozione della prima volta che vidi la televisione a colori, le gare di nuoto delle Olimpiadi di Monaco del 1972, il giallo del Brasile con i calzoncini blu nel campo verde, non avrei avuto tutte quelle foglie d’autunno che vedevo, lì nel viale che portava a casa di mia nonna, e che insieme a mia nonna raccolsi per comporre un grande quadro, una ricerca, tutta sulle foglie, ognuna di un albero diverso, ognuna col suo nome. Avevo forse sette anni, era stata la nonna a dirmi ogni nome di ogni foglia. Io però avevo capito che il mondo era vasto, e pieno di differenze, e che per ogni foglia c’era un nome, e una bellezza, e una singolarità. Come per ognuno di noi. Senza la vista, non avrei mai capito quel momento dopo il tramonto, prima del buio, quel momento in cui tutto è violetto, in cui tutto il mondo sembra di colpo suonare una musica nuova, quel momento in cui tutto il mondo sembra stare per spiegarti che cosa è Dio, qual è la sua forma e il suo colore. Non avrei mai conosciuto il viso di Alessandra, che mi ha fatto innamorare a dodici anni, a cui sono stato fedele per tutti gli anni delle scuole medie, senza che lei sapesse il mio amore. E quando lo ha saputo, non le è importato nulla. Però quel volto da piccola Cleopatra, con la frangia nera e gli occhi grandi da Audrey Hepburn, sarebbe stato il mio paradigma per quasi ogni amore futuro. E i Faraglioni di Capri, come avrei potuto capirli senza lo sguardo? E il viaggio oltre l’infinito di 2001 Odissea nello spazio? Del Partenone di Atene, del Colosseo di Roma forse avrei potuto fare a meno. E persino della Gioconda. Ma della sagoma di Firenze con Ponte Vecchio, quella che si vede dal ponte Santa Trinita, no, quella sono felice di averla vista. E di avere visto i film di Wim Wenders, il loro guardare spazi infiniti, attraversando l’Europa o il deserto, di vedere la faccia di Rudiger Vogler quando fa un mezzo sorriso alla donna che ha incontrato in un piccolo cinema di provincia, di aver visto il volto dei suoi angeli, a quello non avrei voluto rinunciare. Vedere. Cibarsi di visione. Cibarsi di immagini. Anche quando si fa l’amore, guardare la donna che è lì con te, e non finire mai di guardarla, mentre la tocchi, mentre la possiedi, così si dice, ma non c’è mai possesso, sfuggirà sempre, prima o poi, e soltanto ti puoi fare invadere da quell’immagine, da quello che i tuoi occhi riescono a divorare in quel momento. E ogni giorno alla televisione, milioni di immagini che trasmigrano nella tua mente, fin da quando eri piccolo, e c’era Pippi Calzelunghe e i suoi gabbiani, la prima idea del Nord Europa che hai ricevuto nella tua vita, e padre Brown che giocava a pallone fra i ragazzini, la cosa più bella che la tua infanzia ha avuto, quell’immagine di un ministro di Dio umano, amichevole, piccolo, che poteva accorgersi di te, e giocare persino con te. Vedere, vedere, vedere, ogni giorno vedere tutto, e leggere con una foga immensa. Il mondo, lo hai sempre annusato con gli occhi. Il mondo, lo hai sempre mangiato con gli occhi. Per questo ti fa paura, che un bisturi entri nel tuo occhio migliore, quello con il quale riesci a leggere, la notte, per ore e ore. Ci sono alcuni grandissimi che erano ciechi. Di alcuni di loro, non lo sapevi. Sapevi di Omero, certo, e hai sempre pensato che quella fosse un invenzione, un simbolo, una metafora: per raccontare davvero, occorre non guardare più. Smettere di accumulare informazioni, non vedere più il presente, spegnere gli occhi, e far partire la memoria, il racconto, l’occhio che guarda dentro la tua memoria, o la tua immaginazione. Ma non sapevo che James Joyce era quasi cieco. Non sapevo che lo era Pulitzer, il dio dei giornalisti con il suo premio; non sapevo che era finito cieco Galileo, a forza di guardare le stelle e i pianeti. Sapevo, certo, di Borges, e mi sono sempre chiesto con quale forza riuscisse a organizzare i suoi racconti, i suoi labirinti, come riuscisse a scegliere quelle parole taglienti, uniche, che sembrano nate dopo mille correzioni, mille riscritture, e invece doveva scrivere quasi senza correggere, poiché rileggere sarebbe stata una pena,, o forse no, chissà, basta una assistente. Ma non poteva facilmente vedere i propri appunti, le proprie note; doveva scrivere com i giapponesi dipingono, in un unico gesto elegante e definitivo, perentorio, esatto e inappellabile. Sapevo che era cieco, negli ultimi anni di vita, Claude Monet: e probabilmente fu questo il dono miracoloso che gli permise di creare le Ninfee, quadro che sancisce la dissoluzione della pittura così come la intendevano fino a quel momento. Ma lui probabilmente costruiva una realtà così de materializzata, così aerea, così spappolata, così priva di consistenza, di durezza, di pesantezza proprio grazie alla sua cecità, che gli impediva di percepire forme troppo nette, e gli faceva vedere soltanto masse di luce e di ombre. Con gli occhi io ho visto le grandi scoperte della mia infanzia: il ristorante self service in piazza della Stazione, dove si andava avanti con un vassoio e si prendeva tutto quello che si voleva, e per un bambino non c’è gioia più grande. O il grande salone di parrucchiere dove una volta mi portarono, in centro, e c’era un signore col camice bianco che sembrava il capo di tutta la gente che c’era lì, e mi fece i capelli, con l’aria da grande artista lui, e bambino stupefatto di tanto ordine io. È rimasto progressivamente semicieco Oliver Sacks, che un mattino va al cinema, a New York, e inizia a vedere dei lampi nel buio, uno sfavillare dentro il suo cervello, nel buio della sala cinematografica, ed era un tumore che stava toccando il suo nervo ottico, il tumore che lo avrebbe portato alla morte. Oliver Sacks, il poeta di tutti gli uomini diversi, diversi perché ammalati di malattie bizzarre o comuni, che però ti fanno vivere il mondo in un modo totalmente diverso da come facciamo noi. Oliver Sacks, poetico nel modo di raccontare i suoi pazienti e ogni problema di medicina, trasformando ogni malattia in una persona singola, in carne e ossa, di fronte alla enormità della sua menomazione, del suo smarrimento nel mondo, dello stravolgimento delle sue coordinate; una persona, sempre, messa a confronto con il franare rovinoso della sua memoria, o con ogni altro meccanismo che lo portava a essere diverso dagli altri umani, come messo a vivere in un universo dalle caratteristiche diverse. Oliver Sacks, che ha amato i suoi vecchietti e che ha trovato in ogni persona capacità artistiche, intelligenza, sensibilità. Oliver Sacks, una delle persone più cristiane che abbia riconosciuto nel mondo, anche se lui era ebreo. Ebreo inglese, finito a lavorare a New York, ebreo gay a New York, mai troppo a suo agio con l’establishment, ebreo nevrotico capace di riscrivere un libro dodici volte, e pensare sempre che avrebbe dovuto aggiungere o togliere qualcosa, ebreo gay nell’America degli anni ’60 di hippie e droghe, uomo innamorato delle moto, della musica e dei muscoli, i suoi e quelli dei suoi amici. Uomo che ha saputo vivere fino in fondo la sua vita, donando all’umanità l’idea di una medicina che non dimentica il rispetto, la profonda dignità di ogni uomo, i suoi sentimenti. In uno dei suoi ultimi libri, Sacks analizza vari modi di reagire alla perdita della vista. C’è chi continua a vedere tutto con l’occhio della mente, e riesce persino a riparare il tetto di casa salendoci sopra, di notte, perché sa benissimo dove è ogni cosa, ogni dettaglio di quel tetto e di quella casa. C’è chi si costruisce una visione con i suoni, con le parole, e “vede” una montagna se le viene descritta; c’è chi ha cancellato del tutto ogni riferimento alla visione, e vive soltanto di parole. Ci sono modi infinitamente diversi di essere ciechi. Come diverse erano le foglie che avevo raccolto, insieme a mia nonna. Piccole, grandi, gialle, marroni, verdi, rossastre, a stella, ovali, oblunghe, lancettate. Anche un viale di cento metri, lungo la massicciata della ferrovia, poteva essere un universo.
