NETANYAHU, TRA SOGNO E REALTÀ

NETANYAHU, TRA SOGNO E REALTÀ

Bisogna riconoscere aBenjamin Netanyahu, il premier uscente che probabilmentecontinuerà a guidare Israele, una certa onestà. Il suo grande sogno (ereditato da un padre fervente sionista di estrema destra) oltre a veder scomparire l’ipotesi di uno stato palestinese accanto a Israele, è una nazione, Israele, per gli ebrei e senza arabi. È un sogno condiviso da molti ebrei israeliani e forse per questo una fetta importante degli arabi israeliani – molti dei quali sognano un paese senza ebrei – ha preferito restare a casa e non votare. Netanyahu, non per la prima volta, ha fatto di tutto per estraniare gli arabi (il 20 per cento della popolazione) dal voto e continua a dire che gli arabi non dovrebbero avere gli stessi diritti degli ebrei. Altri politici della destra vorrebbero privarli di quel diritto, parte fondamentale di ogni democrazia. Persino i leader dei partiti di centro come il nuovo arrivato l’ex generaleBenny Gantz, avevano respinto l’ipotesi di una coalizione vincente se l’ago della bilancia fosse il voto arabo. C’è da chiedersi: dove vivono questi politici e i loro sostenitori? Sabato scorso tardo pomeriggio, ancora la festa di fine settimana degli ebrei, mi sono recato in un pronto soccorso di quartiere a Gerusalemme che fa parte della rete sanitaria israeliana. All’accettazione un impiegato arabo israeliano, gentile e con una conoscenza buona dell’inglese, mi ha accolto riempiendo le solite carte. Pochi minuti dopo, mentre la sala d’attesa si andava riempiendo di ebrei religiosi che avevano atteso il tramonto e l’apparizione della prima stella per cercare assistenza medica, si è affacciato un infermiere arabo israeliano. “Eric venga”. Controllo della temperatura e altre domande di rito. “Aspetti nella stanza numero 4”, una delle tante che si affacciavano su un corridoio che si andava sempre più movimentando. Un ebreo ortodosso più anziano aveva un problema a una gamba; una bambina piagnucolosa in braccio a una giovane mamma ortodossa era sofferente: forse una influenza oppure morbillo che per mancanza di vaccinazioni ha creato un problema nelle loro comunità su tre continenti; una coppia di arabi aspettava di far visitare il figlio che guardava sperduto il movimento per lui insolito. Arrivato il mio turno, un giovane medico, arabo anche lui e con un inglese perfetto, impiegò pochi secondi per spiegarmi di cosa soffrivo e cosa avrei dovuto fare. L’infermiere, arabo anche lui, che mi infilava l’ago per la prima dove di antibiotici, preferì parlare ebraico con la mia accompagnatrice prima di rivolgersi a me in inglese con un sorriso: “Lei è di passaggio? Le piace qui?”. “È un paese complicato”, risposi. E lui sorridendo: “Una città complicata. Per questo la odio e l’amo insieme”. La realtà di quel pronto soccorso di Gerusalemme, città divisa e contestata, è uno specchio preciso del sistema ospedaliero, tra i più avanzati del mondo, dell’intero paese. E rispecchia la realtà di molte luoghi in Israele dove i rapporti di convivenza delle due popolazioni, divise da religione, cultura, sogni e anni di guerra, assomiglia a quella dei grandi paesi d’immigrazione. Osservando le spinte sempre più a destra dell’elettorato mai come questa volta ho l’impressione che mentre gli arabi israeliani subiscono, il popolo ebraico di questo paese – l’ottanta per cento della popolazione – viva nel rifiuto di ciò che, nel bene e nel male, è Israele: uno stato bi-nazionale. Che potrebbe diventare ancora più grande e complesso se, come ha promesso, il premier Netanyahu deciderà di annettere i territori occupati da Israele o parte di loro.