UNA GIORNATA ALL’OSPEDALE

Lì dove anni fa c’era il pronto soccorso oculistico, e aspettavamo a decine, con occhi bendati, fasciati, con occhiali da sole grandi come televisori a 42 pollici, ora non c’è quasi niente. L’atrio di ingresso è vuoto. Dietro lo sportello la signora è molto gentile: devo firmare il foglio, pagare e riportarglielo. Ci sono solo io. Probabilmente gli altri sono arrivati prima. Il solito bischero. Vado alla macchinetta con il bancomat, di solito si mette la tessera sanitaria. Ma la bocchetta per inserire la tessera sanitaria è chiusa col nastro adesivo. Infilo il foglio con la richiesta di intervento: dovrebbe leggere il codice a barre, ma non legge niente. Lo schermo dice che non corrisponde nulla con questo nome. Ma come? Allora, penso per un attimo, sono libero. Non avrò il problema di stare fermo sotto i ferri. Vado a casa. Vado a dormire. Non è colpa mia, io l’operazione la volevo fare, ma non sono segnato. Ho la coscienza pulita. Anzi, quasi quasi vado a fare colazione al bar, stamattina… Torno dalla donna dello sportello. “Ah sì, succede spesso”, dice. “Non riconosce i moduli. Lei metta l’importo a mano, e va bene così”. Sì, ma senza un riferimento, senza il mio nome, senza niente? “Sì sì”. Torno all’inghiottitore di soldi, digito “38 euro”, e pago. Il bancomat, quello sì, lo prende. E penso che questa operazione costerebbe tanti soldi, se non ci fosse la sanità pubblica nel paese in cui sono nato e vivo. Penso che in un altro paese forse non me lo potrei permettere, di tentare di vedere meglio, a questa età. Però penso anche che ogni anno pago le mie tasse anche per questo. E che sono felice di capire, dopo tanti anni, a che cosa servono. Salgo su, al secondo piano. Le scale sono tristi, desolate, come desolato era l’atrio. Poi una stanza piena di gente. Tutti in piedi, a girellare piano. Stanno tutti aspettando la stessa operazione mia. Ma perché in piedi? Guardo meglio, c’è una stanzina che funge da sala d’attesa. Ma avrà una decina di posti a sedere, e di persone che aspettano ce ne saranno trenta di più. Io sto in piedi, sono giovane, non è questo il problema. Mi appoggio a un termosifone, c’è una donna che ci ha appeso la borsa, non me ne accorgo. La donna arriva, con l’aria di chi teme che io le rubi qualcosa. Ma in fondo ha ragione. Aspettiamo, ci sono vecchi, scarpe da ginnastica North Star, c’è una donna forse etiope. Ci sono i libri, in una piccola bibliotechina a un muro. E fra i libri, ce n’è uno in francese. Julia Kristeva, “Soleil noir: dépression et mélancholie”. Un libro sulla melanconia e la psicanalisi, studiata attraverso la letteratura: Dostoevskij, e Marguerite Duras, e chissà chi altro, come esempi di nichilismo e ateismo doloroso… mi perdo nei pensieri del sole nero, del male di vivere. Tutti questi scrittori morti, che hanno raccontato l’angoscia di stare al mondo. Una voce mi distrae: “QUELLI DI MEZZOGIORNO! TUTTI QUI!”. È l’infermiera, con una voce cantilenante, toscana, come se recitasse una filastrocca per bambini. Come se si rivolgesse a dei bambini. “Al-lora! Quando entrà-te da quel-la por-ta, lascià-te tutto al vostro ac-com-pa-gnatòre! Cose di valore, denaro, chiavi, documenti, orologio, lasciate tutto al vostro accompagnatore, non portate niente dentro! Capito? Non portate dentro il telefono; portate solo il pi-giàma e le cià-bàtte”. Immediatamente mi sento in colpa: non ho il pigiama e le ciabatte, non ci ho proprio pensato, come farò quando mi devo spogliare? E poi ho una colpa più grave: non ho accompagnatore. Sembra così scontato, che ci sia qualcuno insieme a te. Sembra così scontato, che tu possa contare su qualcuno che ti accompagna, che aspetta insieme a te. Che tu possa non essere solo. Invece io sono solo. L’infermiera mi strappa a questi pensieri quando grida: “Ma ora entrano solo le donne! Tutte le donne! Voi maschietti vu aspettate!”. E alcuni degli anziani fanno dello spirito: “E ll’è sempre così, le donne ‘e ci fanno sempre aspettare a noi, e le passano sempre avanti!”. Le donne entrano, tutte insieme, messe in fila dall’infermiera. Rimane, discosto, la donna di mezz’età che viene forse dall’Africa, forse da Sri Lanka. Che prima mi aveva chiesto “forse… qui… restroom?”. Se c’era un bagno. E anche adesso, non capisce che deve entrare da quella porta anche lei. L’infermiera le dice in italiano “QUARTA PORTA! QUARTA PORTA A SINISTRA!”, ma è evidente che la donna non capisce. L’infermiera probabilmente non ritiene nemmeno pensabile che una donna, lì in quel secondo piano di oculistica, possa non sapere l’italiano. E glielo ripete, ma a voce più alta. Come se fosse una questione di volume sonoro. La donna straniera è confusa, nessuno la aiuta. Le dico, in inglese, che deve entrare e poi andare lì, quella porta in fondo a sinistra. E poi aspetto. Dopo una mezz’ora la voce cantilenante, come suor Guglielmina all’asilo: “ORA TUTTI GLI UOMINI! GLI UOMINI DI MEZZOGIORNO QUI DA ME!”. Eccoci, siamo gli uomini di mezzogiorno. Ed entriamo, una lunga fila di spettri, di piccoli Nosferatu ingobbiti, persone a cui metteranno le mani, e i bisturi al microscopio, negli occhi. Persone che domani vedranno, probabilmente, in modo diverso da adesso. C’è qualcosa che mi inquieta mentre ci stanno mettendo in fila, qui all’ospedale, e ci mettono in un grande stanzone illuminato al neon, poi ci dicono di spogliarci tutti e aspettare. E mentre vecchi dai capelli fini come tele di ragno e dalle mutande Sloggi si spogliano, rischiando ad ogni istante di cadere mentre si levano i pantaloni e si sporgono in avanti come sull’orlo di un precipizio, io guardo in alto, come se dovessero esserci delle docce. Non esce niente dall’alto, e rimaniamo nello stanzone, vecchietti pallidi e gnudi; a me che non avevo niente danno un pigiama monouso, che mi sembra bellissimo. È verde e blu, e mi piacerebbe portarmelo a casa. Le ciabatte non ce le hanno, e sono contento di tenermi le scarpe. Ci accomodiamo su delle grandi poltrone a braccioli, come se stessimo prendendo il sole all’hotel Des Bains, come se fossimo degli Aschenbach al lido di Venezia, e da qualche parte ci fosse un Tadzio da guardare. Seduti lì, immobili, vecchi aristocratici in attesa. Dobbiamo mettere la farfallina, l’ago ipodermico per poter mettere al volo soluzioni e fleboclisi, in caso di bisogno. Andiamo a sedere uno per uno al tavolo dove c’è l’infermiera, come alunni all’interrogazione. Porgiamo la mano, e ci infilano l’ago. Avverto che io sono impressionabile – in realtà non lo sono più da qualche anno – e l’infermiera mi fa sdraiare su un lettino, e mi parla, quasi affettuosa, mentre mette l’ago, e io guardo il soffitto con grande attenzione. Torno sulla poltrona dell’hotel Des Bains, e guardo l’Adriatico che non c’è, davanti a me.