CHE NIENTE VADA PERDUTO
Sono nato in una famiglia povera. Mio padre aveva 24 anni quando scoppiò la guerra. Francesco, suo fratello, qualcuno in più. Partironolo stesso giorno per andare a servire la Patria. Un mese dopo la partenza, Francesco era già morto. Tornerà al paese in una cassetta di zinco all’ inizio degli anni ‘60. Mio padre fu fatto prigioniero nei Balcani. Domenico, il fratello di mia madre, finì, invece, in un campo di concentramento in Germania. Alla fine della guerra, ritornato a casa, mio padre, contadino senza terra, si rimboccò le maniche per dar da mangiare ai figli. Analfabeta ma intelligente. Aveva una forza fisica e una forza di volontà non comune. “ Il pane si guadagna con il sudore della propria fronte” ci ripeteva. Così ha fatto per tutta la vita. Così ci ha insegnato a fare. Girava per le campagne e prendeva in affitto i frutteti dai quali raccoglieva e poi vendeva la frutta. Pescheti, ma anche meleti e vigneti. Diventavamo in quel modo “ proprietari” del campo fino alla fine della stagione, quando, terminata la raccolta, papà riconsegnava le chiavi al legittimo proprietario. Una stretta di mano e la promessa di vedersi ancora l’ anno prossimo. “ Se Dio vorrà”, naturalmente. In campagna c’era lavoro per tutti, compresi noi bambini. In quei pescheti che profumavano di fresco, passavamo l’ estate aiutando gli adulti, correndo, giocando. La campagna per me ha significato molto. Da piccoli non abbiamo mai avuto un giocattolo. Per la verità nemmeno ne sentivamo il bisogno. I giocattoli ce li costruivamo da soli. Eravamo capaci di salire e scendere dagli alberi, andare alla ricerca dei funghi, cacciare gli uccellini, inseguire le lucertole. Tutto era un gioco. Stavamo sempre all’ aria aperta. Il pranzo che la mamma preparava e ci portava in grandi cesti, veniva consumato sotto gli alberi. L’ acqua, il vino, i cocomeri erano tenuti in fresco nel pozzo, a volte, talmente in superficie che potevamo toccare l’ acqua a con le mani. Non si comprende un uomo, il suo pensiero se non si conosce la sua storia. L’ amore sviscerato per la mia terra, il dolore e la rabbia immensi nel vederla oggi inquinata e deturpata affondano le radici nei primi anni della mia vita. Ricordo papà e mie fratelli più grandi salire sugli alberi per raccogliere le pesche mature prima che gli uccelli venissero a beccarle. Noi bambini stavamo sotto la scala a tre piedi. Prendevamo dalle loro mani il cesto pieno e lo portavamo alle donne che provvedevano a sistemare le pesche in apposite cassette. Con garbo. Facendo attenzione a mettere in prima fila le più belle, le più colorate. Anche l’ occhio vuole la sua parte. Piccoli trucchi per meglio vendere il prodotto. Una vera catena di montaggio. Si cantava. Tutti cantavano. Vecchie melodie napoletane. A volte una sorta di lamenti. Si rideva. Bastava poco. Una scivolata. Una mosca nel piatto, un topo che terrorizzava le ragazze. Si scherzava. Eppure ci si stancava molto. Non credo che i miei avessero letto il Vangelo. Ma la comunione che Gesù raccomanda ai suoi, tra noi era tenuta in grande considerazione. E anche il rispetto per gli anziani. Tutte le mattine, prima di andare a scuola, la mamma ci svegliava per accompagnare papà al mercato ortofrutticolo. Il lavoro non mi ha mai spaventato. A casa nostra il pane non è mai mancato. Anche se a volte poteva mancare il companatico. E quel pane era sempre pane benedetto. Certo non avrei mai potuto immaginare il lavoro che sarebbe venuto dopo. Morta la mamma, fui consigliato di iscrivermi a una scuola per infermieri. Mai scelta fu più appropriata. Finita la scuola, trovai lavoro quasi subito. Adesso avevo uno stipendio tutto mio. Decisi di continuare a studiare. Me lo potevo permettere. Mi diplomai infermiere professionale, in seguito mi abilitai alle funzioni direttive e mi specializzai sulle tossicodipendenze. L’ ospedale divenne la mia seconda casa. Il luogo dove ho capito che chi soffre merita più rispetto e più attenzione degli altri. Una società andrebbe giudicata dalla cura che ha per i poveri, i piccoli, gli ammalati. Compresi che chi soffre è mio fratello. Che la sua dignità non diminuisce ma aumenta con la malattia. Non capivo perché qualcuno si ostinava a chiamare i pazienti ricorrendo al numero del letto o alla patologia di cui era affetto. No, l’uomo rimane uomo anche e soprattutto nella sua malattia. Quando la paura per il futuro, il dolore lancinante lo rendono più fragile e insicuro. Con tutti i miei limiti e le mie miserie ho voluto bene agli ammalati. Le parole di ringraziamento, di gratitudine, di benedizioni ricevute dai pazienti in quegli anni le conservo nel cuore gelosamente. Una mattina, lavoravo in Pronto Soccorso, accadde un episodio che mi segnò. Era appena iniziato il turno, quando … Riporto dal mio diario: « Arrivò che era ancora vivo. Avrà avuto non più di 20 anni. In officina era stato colpito da una scossa elettrica. Facemmo di tutto per strapparlo alla morte. Alla fine volò via. Non era per me la prima volta che un giovane mi morisse tra le braccia. Stavolta, non so perché, fu diverso. Rimasi a guardare quel ragazzo morto come intontito: dove era andato? Continuava a vivere? Era tutto finito? Credo che debbo anche a lui e al lavoro in ospedale se la mia riflessione sul senso della vita e della morte sia approdata verso il sacerdozio». Mi è costato molto lasciare l’ ospedale quando ho sentito di essere chiamato al sacerdozio. Ricordo l’ ultima notte di lavoro. Giravo per i reparti. Gli odori dei medicinali che spaventano i bambini mi erano familiari. Guardavo i pazienti dormire nei loro letti. Un fiume di lacrime cominciò a scorerre per le guance. In medicheria scrissi su un foglio di ricettario che ancora conservo: « So che non sto scherzando. So che non sto tentando. Imbocco la strada che tu, Signore, da sempre hai preparato per me …» La famiglia, la campagna e l’ ospedale mi hanno forgiato. Sono stati i miei maestri. I mie compagni. Vennero poi gli anni della formazione in seminario. Un tempo di grazia straordinaria. Rettore era in quegli anni monsignor Agostino Vallini, in seguito Cardinal Vicario di Roma. A padre Agostino, come l’ ho sempre chiamato, devo molto. “ Ragazzi, nella vita si può anche sbagliare e di certo in tante cose sbaglierete. Importante, però, è fare tutto con retta coscienza”, ci ripeteva. La retta coscienza. La gran signora che vigila sul tuo operato. La nobildonna che ti mette in agitazione quando agisci con superficialità, o, peggio, per qualche meschino interesse personale. Che mette il broncio quando non badi al fratello cui stai facendo male. Quando la vanagloria, l’ orgoglio, la superbia ti impediscono di essere sincero e trasparente. La retta coscienza. Che ti canta la ninna nanna quando, giunto a sera, ti rassicura che tutto hai fatto per la gloria di Dio e la salvezza dei fratelli. Il Signore benedica monsignor Vallini. La vita è fatta di incontri. Nella mia vita ho incontrato persone straordinarie. Tutte mi hanno lasciato un segno. A tutte sono riconoscente. Per tutte ringrazio Dio. Entrai in seminario a quasi 30 anni. gli altri seminaristi, naturalmente, avevano almeno dieci anni in meno di me. Qualche problema ci sarebbe stato. Invece proprio in quell’ anno, altri adulti chiedevano alla santa Chiesa di diventare preti. Il rettore, perciò, pensò di formare, per la prima volta, un gruppo a parte di vocazioni adulte. C’era Angelo, un anno più di me, che aveva lascito a suo fratello un’industria di ascensori. Filippo, laureato in lettere. Lucio, avvocato; Sebastiano, laureato in filosofia; Paolo, architetto. Francesco, operaio; Roberto, laureato in scienze politiche; Peppino, il pugliese, ingegnere elettronico. I mie confratelli. I miei fratelli. I seminaristi più giovani, scherzosamente, ci chiamavano “Il gruppo dei Puffi”. Con loro s’ instaurò un rapporto molto bello. Ci vedevano come fratelli maggiori, mentre per noi erano i piccini. I “ pitti” li chiamava Filippo nel suo dialetto ischitano. Di questi “ piccini” diventati sacerdoti, due, Antonio ed Enzo sono già volati in paradiso. Anche Filippo presto tolse l’ ancora alla nave e prese il largo. Una settimana prima dell’ ordinazione, Roberto, con fare serio, mi disse: « Maurizio, ti rendi conto? Eravamo destinati ad essere una croce per gli altri, il Signore ha voluto mettere sulle nostre spalle la croce degli altri». Incredibile. Gli anni di seminario scivolarono come un fiume verso il mare. Non mi pesò per niente passare dalla responsabilità di dirigere un reparto d’ ospedale a obbedire ai superiori. Per giunta, Nino, il nostro animatore, aveva un anno in meno di me. Quando, per la prima volta, varcai la soglia del seminario permisi solo al mio amico Franco di accompagnarmi. Franco, come me, dopo l’ esperienza nella Chiesa evangelica, aveva fatto ritorno alla Chiesa cattolica. Un lungo viale alberato divide il cancello elettronico dal pesante portone di legno del seminario di Capodimonte. Davanti a quel portone, Franco arrestò l’ auto. Scendemmo le valige, l’ ombrello, i pacchi. Commossi ci salutammo. Franco, sempre di poche parole, quella volta diventò completamente muto. Salì in macchina, imboccò il viale e oltrepassò il cancello che si apriva lentamente. Era un uomo libero. Libero di andare dove voleva. Di fare quello che gli piaceva. Io, invece, rimanevo dentro. Da quel momento avrei dovuto obbedire ai miei superiori. Chiedere il permesso anche per andare a fare una passeggiata. La mia vita stava cambiando totalmente. Eppure nel vedere uscire Franco e chiudersi il cancello, avvertìì un senso di profonda libertà. Mi sembrò che lui stesse entrando in un luogo chiuso mentre per me si spalancavano orizzonti inesplorati. Mistero della vocazione. Non ci si chiama da soli. Qualcuno che ti conosce meglio di te stesso, ti indica la strada. Ti ammalia. Ti corteggia. Ti seduce. Ma anche ti lascia libero di rispondere come meglio credi. Essere chiamati vuol dire essere pensati, essere corteggiati, essere amati. Vuol dire che sei importante, unico, indispensabile. La prima grande vocazione è la vocazione alla vita. Da sempre siamo nel pensiero di Dio. Procedevo con gli esami senza alcuna difficoltà. Tutto appariva pallido nei confronti della meta cui volevo arrivare: il sacerdozio. Padre Armando Dini, è stato l’ angelo custode che mi ha accompagnato in quegli anni e anche dopo. L’uomo che mi ha aiutato a discernere nelle varie situazioni qual era volonà di Dio. Prete della diocesi di Napoli, fu, in seguito, vescovo di Avezzano prima e Campobasso poi. In Signore ancora ce lo conserva. Ai suoi consigli ancora ricorriamo. Mena era una mamma tetraplegica. Aveva 24 anni quando le fu diagnosticata la sclerosi multipla. Una santa dei nostri giorni. Me la presentò fra Riccardo. Diventammo amici. Ha pregato per me e mi ha sostenuto fino alla sua morte e, ne sono convinto, continua a farlo. Il giorno tanto atteso, finalmente cominciava a intravedersi all’ orizzonte. Col vescovo fissammo la data dell’ ordinazione: 29 Aprile 1989. Il cuore era in subbuglio. Il sacerdozio: dono e mistero. Responsabilità e grazia. Con altri diaconi andammo in Toscana per gli “Esercizi spirituali”. Una settimana di silenzio, di preghiera, di riflessione. La casa che ci ospitava era bella, spaziosa, un gioiello incastonato in mezzo a una foresta. Il luogo ideale per meditare sul grande dono che il Signore aveva voluto farmi. Un fratello sacerdote più anziano ci indicava i temi su cui riflettere. Una mattina, mentre passeggiavo, fra gli alberi, vidi un animale strano. M’ impaurìì, sembrava infatti essere un lungo serpente. Aguzzai lo sguardo e mi accorsi che si trattava, invece, di centinaia di piccoli “millepiedi” che avanzavano lentamente tenendosi uno legato all’ altro. Il “capo” decideva da che parte andare e tutti lo seguivano. Rimasi a contemplare questo spettacolo della natura fino a quando la campanella mi ricordò che era ora di andare a tavola. Dopo pranzo ritornai dai miei piccoli “amici” in mezzo alla foresta. Non vedevo l’ ora di ritrovare la carovana dei millepiedi. Stavolta lo spettacolo fu allucinante. Uno scenario di morte. Era successo che il “ capo” aveva avuto l’ infelice idea di attraversare la strada che dal cancello portava al santuario. Gli altri, naturalmente, lo seguirono. Sicchè furono decimati dalle auto che passavano. I superstiti, avendo perduto il punto di riferimento, vagavano senza meta. Mi soffermai a pensare. Compresi che la responsabilità di chi sta alla guida di una comunità è grande. Che con le mie scelte avrei potuto influenzare la vita e la felicità degli altri. Che chi si sarebbe affidato al mio sacerdozio non doveva mai essere deluso. Mai essere ingannato. Ancora oggi il ricordo e la lezione dei millepiedi mi tiene compagnia.
