L’ESILIO DELLA POLITICA

Benché sia evidente e foriero di nuove disfatte, il vuoto desolante nel quale ci troviamo stenta a essere riconosciuto nella sua radicalità, per così dire epocale. Chi non ha vissuto gli anni Sessanta e Settanta, chi è venuto all’età della ragione quando la politica era già, nel mondo, nient’altro che lo scatenamento neoliberale degli spiriti animali e, in Italia, la mercificazione berlusconica delle istituzioni – in una parola la cosiddetta “post-democrazia”– ha finito per identificare l’esistente con l’orizzonte del possibile, spacciando le proprie aspirazioni soggettive per istanze critiche. Nella rassegnata introiezione del dato come unico quadro di senso, la politica – la politica come pratica storico-critica volta alla trasformazione della società – è appena lo schermo di un fantasma sopravvissuto alla propria fine, un puro simulacro in cui proiettare le proprie pulsioni più aggressive, forse troppo a lungo rimosse. A livello micrologico, le elezioni amministrative in una cittadina di provincia come Cassino costituiscono un laboratorio privilegiato per osservare, in una imbarazzante prossimità, i nocivi succedanei che hanno sostituito il conflitto o il confronto politico, almeno nell’area che, con vezzo nostalgico, ancora si definisce di centrosinistra. Sul versante del centrodestra, la situazione appare realmente meno grottesca, dal momento che il consueto metodo privatistico-spartitorio permette, con opportuni aggiornamenti nelle tecniche di calcolo degli interessi, la fissazione dei criteri di convenienza e di aggregazione. Il centrosinistra, che pure si sforza di conformarsi progressivamente all’egemonia della subcultura di destra, stenta ancora a eguagliarne il livello di cinica impassibilità. Attorno al focolare del PD, insieme ai frammenti residuali della sinistra, ferve da mesi il dibattito intorno all’individuazione dei candidati-sindaco. E puntualmente, esaurite le criptiche allusioni e le designazioni ermetiche nelle riunioni collegiali, compaiono ogni giorno, sulla stampa locale, nuove autocandidature o abdicazioni -accanto ad abdicazioni delle precedenti abdicazioni- da parte di vetuste vedettes politicanti. Naturalmente si tratta di candidature al buio: nessuna di esse sente il dovere di indicare i punti salienti del proprio progetto; chi si propone in competizione con altri auto-candidati, magari dello stesso partito, non avverte alcun bisogno di esplicitare le proprie differenze di visione con il suo competitor, neppure per sommi capi. Per l’individuazione del proprio virtuale bacino di consenso, basta il nome a sanzionare la volontà di autoaffermazione. Infatti, l’unico elemento di concordia tra tutte le variegate componenti è stato il rifiuto pervicace delle primarie, pronunciato però a mezza voce – nella forma del rinvio sine die al fine di renderle di fatto inattuabili. Anche il tardivo ricorso in extremis alle consultazioni primarie, fissate dai “padri putativi provinciali e regionali” a meno di un paio di settimane dalla consegna ufficiale delle liste, ha tutte le sembianze di un espediente tattico per constatarne l’improponibilità. In verità, nonostante le primarie nazionali abbiano regalato al PD una salutare boccata di ossigeno, tutti i rappresentanti del centrosinistra locale le vedono come il fumo negli occhi. La motivazione più diffusa per la rinuncia è il temuto innesco di divisioni interne, come se la moltiplicazione delle autocandidature non fosse il segno eloquente di divisioni personalistiche o familistiche e di clan, le cui ragioni sono rimaste assolutamente inconfessabili. Vero è che la trasparenza del confronto, impedirebbe la clandestinità degli scambi sottobanco e, imponendo una giustificazione programmatica delle candidature, costringerebbe tutti a misurarsi con la problematica complessità della realtà cittadina. In tutti i numerosi “conclavi” che da un paio di mesi hanno regolarmente emesso fumate nere circa la scelta dei candidati papabili, è prevalso il timore che le primarie possano costituire la legittimazione di nuove figure e di giovani dirigenti, privi tuttavia dei mezzi logistici che partiti o aziende private assicurano alle vecchie talpe politicanti per le loro dispendiose campagne elettorali. Peraltro l’attuale sistema delle elezioni comunali -autentica parodia della partecipazione popolare- esalta la radicale spoliticizzazione dei candidati, favorendo un trasformismo sistemico, per il quale è importante soltanto la copertura territoriale attraverso la moltiplicazione parossistica delle liste. Lo scontro diventa lotta intestina di quartiere o di condominio, scissione familistica delle cerchie parentali, puro mezzo di sabotaggio della lista rivale. Se ad ogni candidato-sindaco fosse associata una e una sola lista, con la riserva che solo il terzo candidato, escluso dal ballottaggio, possa entrare in consiglio comunale, l’inverecondo mercato delle liste (per il quale, nelle scorse elezioni ad esempio, su 23.000 votanti, si contavano oltre 600 aspiranti consiglieri comunali) sarebbe sottoposto ad un efficace calmiere. La confusione tra populismo demagogico e democrazia, che segna il collasso della politica, ha qui una delle sue radici più vitali. L’altra, ancora più remota, rimanda allo smantellamento dei partiti e alla loro sostituzione con circoli e gazebo mobili, che hanno sempre più l’aspetto delle associazioni di caccia e pesca, o dei club periferici delle tifoserie calcistiche, affinché la politica, quella che davvero decide dei destini del mondo, sia esercitata nell’oscurità, all’ombra dei gruppi finanziari e delle aziende multinazionali.