BABY GIOCATORE INSULTATO, ALLENATORE RITIRA SQUADRA
Capita che in una assolata domenica di primavera ci si trovi seduti sui gradoni di un campo di calcio di Ravenna dove due squadre di dodicenni disputeranno una partita del loro campionato. La partita per i baby campioni e’ importante e la disputano con impeto, con l’irruenza tipica dell’eta’. E’ bello seguire i figli durante le trasferte per una partita. Sedere sugli spalti, sentire addosso l’orgoglio di essere genitori del ” gladiatore” che nel nostro immaginario scatenera’ l’inferno. E gia’, padri e madri chiudendo gli occhi, per restare in ambito calcistico, sport nazional popolare, si vedranno intervistati quali genitori di fenomeni del calibro di Ronaldo, Messi, Higuain. E questa frenesia coinvolge a tal punto che molte volte si perde il lume della ragione e ci si lascia andare a gesti o a linguaggi che stridono con l’eta’ adulta. Anche quella domenica, su quegli spalti, in una partita fra adolescenti e’ andato in scena il solito teatrino di tifo becero cui il calcio milionario ci ha gia’ abituati. E l’agonismo incalza, l’adrenalina veste quei giovani cuori, e ragazzini gioiosi si trasformano in giovani leoni in una savana metropolitana, dove due branchi si annusano, si sfidano, si contendono un territorio, giocano come fosse in palio la Liberta’. L’allenatore che ne conosce vizi e virtu’, che asciuga le lacrime di dolore quando ancora si sbucciano un ginocchio, che li sgrida quando ritardano, quando la mania di protagonismo soppianta il necessario gioco di squadra, quando l’egoismo di uno penalizza il gruppo, e’ li’ a bordo campo a incitare, a fare tattiche, a consigliare. Ed e’ il mentore di quelle giovani anime, l’adulto a cui piu’ di tutti guardano con rispetto. Capita cosi’ che i genitori_ tifosi il cui compito precipuo dovrebbe essere quello di sostenere i propri “scarrafoni” nelle vittorie e nelle sconfitte, si lascino prendere totalmente la mano dalla malattia del tifoso, patologia grave e infettante. Volano i turpiloqui, i cori irriverenti, le invettive. E normali genitori si trasformano, repentinamente, in ” allenatori” provetti. Quel popolo di santi, poeti, navigatori, da’ il meglio di se’ quando si dispone a scendere idealmente in campo quale Mister. Capita cosi’ che a Ravenna mentre ventidue ragazzi battagliano in campo senza risparmiarsi colpi fisici, di ingegno e di talento calcistico, un genitore, sguaiatamente, offende uno dei giocatori avversari. Il dodicenne porta i capelli lunghi. La sua chioma fluente in campo non sfugge al tifoso, papa’, avversario. E’ l’inizio di offese gratuite:_femminuccia, femminuccia_ O ancora:_ Vai a danza_ La distanza che separa gli spalti dal campo non e’ quella fra la gradinata e il bordo campo dello Juventus Stadium. Cosi’ le urla sfottenti giungono forti e chiare. Odono tutti. Anche il ragazzino oggetto del motteggio che si mortifica. La sua squadra pero’ a dispetto delle frasi dileggianti sta vincendo. E questo costituisce causa dell’ accanimento del papa’ tifoso che imperterrito, incurante anche della presenza di suo figlio che sta disputando la gara, continua a lanciare frasi ingiuriose alla volta del ragazzini avversario. E mentre gli adulti scalmanati inveiscono i ragazzi sognano correndo dietro a un pallone, dimentichi delle fatiche degli allenamenti, dei rimbrotti dell’allenatore, dei riti propiziatori tipici dell’eta’ o di una passione che non conosce eta’. Sognano di tacchetti che diverranno mitici, di una maglia baciata dalla sorte, di ingaggi milionari da parte della squadra del cuore. Capita cosi’ che, finito il primo tempo della partita, l’allenatore, in segno di solidarieta’ nei confronti del suo giocatore e con palese disappunto per lo spettacolo indecoroso di quel genitore, decide per protesta di non fare rientrare in campo i suoi giocatori. La partita viene persa dalla sua squadra a tavolino. ” Ho ritenuto che non ci fossero più le condizioni per giocare – spiega al Resto del Carlino Nicola Di Pietro, l’allenatore dell’Usd Classe che ha preso la decisione di andarsene domenica –. “Era stata una partita molto tesa, con discussioni tra i ragazzi e anche col pubblico. Quelle frasi sono state la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Non era più un contesto adatto a dei ragazzini. Sono convinto che quando si lavora con dei giovanissimi non occorra solo farli giocare, ma serve anche un lavoro sociale che va al di là della partita: sono convinto di aver preso la decisione giusta, e mi sono assunto le responsabilità di questa scelta anche di fronte all’eventuale disapprovazione del mio gesto da parte della Federazione”. In realta’ la Federcalcio ha deciso in questi giorni di fare, invece, disputare fra le due squadre una nuova partita. L’allenatore e’ stato anche ” educatore” in un contesto che aveva perso il contatto con la civilta’. Educare, dal latino edu cere, tirar fuori, formare con l’insegnamento e con l’esempio il carattere e la personalità di qualcuno, specialmente dei giovani, sviluppandone le facoltà intellettuali e le capacità di comportamento sociale secondo determinati principi. ( cfr. Dizionario Garzanti)A volte occorre anche perdere per affermare se stessi, pagare il prezzo delle scelte fatte. La solidarieta’ ad un compagno era costata cara ma in quei ragazzi sarebbe rimasto per sempre il sapore di avere giocato una partita ben piu’ importante che quella in campo. Li sull’erba, dietro un pallone, erano solo giocatori, in quello spogliatoio hanno acquisito la consapevolezza di essere uomini. E il loro allenatore ha voluto trasmettere non solo competenze tecniche, ma soprattutto regole di vita: il vero educatore è perciò colui che sa parlare, prima ancora che all’intelligenza, al cuore dei giovani, all’anima bella di coloro che vuole far crescere in tutti i sensi.
