COPYRIGHT, LE NOVITA’ DELLA DIRETTIVA UE
Il 26 marzo con 348 voti a favore, 274 contrari e 36 astenuti, dopo tre anni di modifiche e contrattazioni, il Parlamento europeo ha approvato in via definitiva la direttiva sul copyright.L’ultima modifica che riguarda i negoziati tra Parlamento europeo e Consiglio, dovrà superare il passaggio formale, appunto del Consiglio, quindi della pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale. La tempistica prevista dovrebbe essere contenuta nell’arco di un mese. Nel 2016 in seno all’Europa sono iniziati i lavori per un aggiornamento delle regole sulla protezione del diritto d’autore. L’ultima stesura e relativa modifica risaliva al 2001, in quegli anni né Internet, né le grandi piattaforme avevano stravolto le modalità di distribuzione e accesso ai contenuti, poi man mano che il materiale soggetto a copyright e comunque di proprietà intellettuale è iniziato a divenire fruibile in maniera diffusa e indiscriminata, s’è resa necessaria una ulteriore revisione. Anni di discussione per questa materia potrebbero sembrare addirittura ingiustificati ma bisogna considerare che sono in ballo interessi ed equilibri importanti.Da un lato ci sono le ragioni degli editori dei contenuti, come: case editrici, giornali, case cinematografiche, case discografiche e tutti i settori paralleli o che comunque hanno a che fare con “prodotti” soggetti a copyright.Dall’altra parte ci sono quelle delle piattaforme della rete Internet, ad esempio i Social Network o i portali come Google, che “consumano e assorbono” la grande maggioranza del mercato della pubblicità online.Si pensi che secondo i dati Lab Europe relativi al 2017 e pubblicati nel 2018, il gettito derivante dalle pubblicità è di circa 48 miliardi nella sola Europa. Ma va anche tenuto in considerazione che molta di questa attività pubblicitaria è possibile anche e soprattutto per la distribuzione dei contenuti di altri e degli utenti. E’ ravvisabile un certo disequilibrio tra il potere contrattuale che hanno i primi, rispetto ai secondi. “Value gap” è il termine col quale viene indicato appunto il gap, fra i diritti pagati dalle piattaforme gratuite e quelli delle piattaforme a pagamento come ad esempio: Spotify.I secondi si sono in effetti già orientati verso investimenti in soluzioni tecnologiche (il noto ContentID di Youtube, tanto per citarne uno), ma anche in nuove figure professionali per monitorare quanto viene pubblicato sulle loro bacheche. Il compito è complesso, si deve valutare quando il problema è nel mancato rispetto del diritto d’autore o se si tratta di una pubblicazione in diretta di un fatto di cronaca. In pratica si sta lavorando per riuscire ad intervenire prima che il contenuto, che contravvenga alle regole, venga pubblicato e consultato online, secondo una “ragionevole certezza informatica”.Critiche tuttavia provengono dai “big del tech”, che sostengono che una imposizione per Legge, comporterebbe il rischio di stravolgere il funzionamento e andrebbe ad inibire la volontà degli utenti alla pubblicazione autonoma, numerosa e continua.Gli editori naturalmente rivendicano il diritto di monetizzare la creatività del loro lavoro, ma anche dei propri investimenti economici, senza dover rinunciare all’esponenzialità della diffusione (linkaggi). Ci sono alcuni problemi però, che sono frutto dell’articolo 11 (divenuto poi il 15 nella versione finale del testo) e dell’articolo 13 (il 17 nel testo finale).L’articolo 17 considera le piattaforme come responsabili dei contenuti caricati, senza richiesta esplicita di monitoraggio preventivo. Quindi, per accogliere i contenuti soggetti al copyright, le piattaforme come Youtube o simili, hanno bisogno di un accordo preventivo che soddisfi le richieste di chi detiene il diritto.In base a quanto recita l’ultima versione, che alcuni considerano un po’ troppo ammorbidita, in assenza di questo accordo, avranno l’onere di dimostrare di aver compiuto “i massimi sforzi per riuscirci” e per evitare altre pubblicazioni, agendo oltretutto in maniera tempestiva per la rimozione del materiale illecito.Per i sostenitori della direttiva (che non vivranno alcun cambiamento sostanziale), ma anche per i detrattori, è un testo che presenta poca chiarezza e lascia aperti troppi dettagli non completamente definiti. Sono fatte salve dall’obbligatorietà della contrattazione e dalla eventuale rimozione, le parodie, le caricature e le citazioni.Così saranno escluse da questo vincolo le pubblicazioni di Gif e meme. Anche in questo caso arriva da parte di alcuni la perplessità su come si insegnerà alle macchine la maniera per riconoscerne efficacemente i contenuti. Si rischierà comunque una selezione alterata o che ingenererà dei “falsi positivi”. L’articolo 15 (ex 11) riguarda invece i giornali. L’obiettivo iniziale della direttiva era quello di imporre il pagamento dei diritti a chi usava estratti degli articoli (snippet = frammento), per esempio chi pubblica le raccolte di notizie come fa Google News o chi pubblica le “ultima ora”, come capita in diversi portali. Tutti questi guadagnano grazie all’organizzazione delle notizie pubblicate da altri garantendone la visibilità.Anche questo “argomento” sempre a detta di alcuni, è stato parecchio ammorbidito perchè non sarà necessario concordare alcun compenso per “singole parole” e per gli “estratti molto brevi”.Anche in questo caso quindi vengono definite vaghe le indicazioni del testo, riconsegnando pieno arbitrio a chi propone queste anteprime, proprio grazie al concetto: “estratti molto brevi”. L’enciclopedia libera e collaborativa Wikipedia cita anch’essa gli articoli e reindirizza alla fonte. Lo scorso 25 marzo la versione italiana è rimasta inaccessibile per tutta la giornata, la settimana prima era toccato ad altre versioni come quella tedesca e quella danese.L’intero dibattito è stato impegnato da queste proteste, che sono continuate malgrado le modifiche al testo e all’esclusione delle enciclopedie online che naturalmente non hanno fini commerciali.In una dichiarazione al Corriere, il portavoce di Wikimedia Italia, Maurizio Codogno, ha ritenuto ancora pericoloso l’articolo 11 “perché si rivolge a non meglio definiti prestatori di servizi della società dell’informazione, perché Wikipedia non ha fini commerciali, ma la sua licenza prevede il riuso commerciale; e perché non viene esplicitato che si può riprodurre il titolo degli articoli linkati”.Codogno ha precisato che sarebbe stato più opportuno parlare di assenza di “fini di lucro” piuttosto che di profitto o di obiettivi commerciali. Nell’ultima versione sono tutelate le startup con meno di tre anni; chi produce un fatturato annuo inferiore a dieci milioni di euro e chi ha un traffico mensile medio di visitatori unici inferiore a cinque milioni.Questi soggetti non hanno obblighi di vigilare su niente, devono solo intervenire “tempestivamente” in presenza di segnalazioni dei detentori dei diritti e fare i… “massimi sforzi” per ottenere le autorizzazioni alle pubblicazioni e evitare ulteriori caricamenti del materiale segnalato. Alcune piattaforme come ad esempio Netflix (che ha stanziato per questo scopo 10 miliardi all’anno), adottano una serie di tecnologie per impedire la “cattura” delle immagini o la registrazione dei video da parte degli utenti.Naturalmente Netflix non è gratuito. Youtube invece lo è, ed ospita contenuti pubblicati dagli utenti, ma ha già iniziato a modificare le “abitudini”. Insomma è avviato un processo di revisione e di modifica sulla regolamentazione del diritto d’autore. Questo è inevitabile proprio perché la comunicazione e la diffusione di ogni contenuto è cambiata grazie ad Internet che avvicina tutto e rende tutto possibile senza troppi vincoli. Ne trae beneficio la libertà ma non deve esserci lo scotto da far pagare a chi grazie al proprio ingegno, dà vita a idee che si trasformano in prodotti che possono essere fruiti da chiunque. Questi vanno comunque tutelati e ad essi vanno garantiti i diritti d’autore.Ora un altro passo avanti è stato compiuto e spetterà agli Stati membri, la valutazione e il perfezionamento di questa delicata materia.
