LA SALVEZZA NEL MERCATO SENZA PADRONI
È stata presentata come una storia singolare, chiamata persino miracolo, ma non è così, è solamente la storia di italiani che ancora producono per se stessi – e non sono soli. La storia recentemente alla ribalta è stata quella della Screen Sud, dove 12 operai sui 50 che hanno perso il lavoro nel 2012 per il fallimento della società per cui lavoravano a Nola, nel napoletano, hanno investito la loro liquidazione e la mobilità arrivando a rilevare l’azienda dal tribunale e portare il capitale sociale a 130 mila euro per poter continuare a produrre in proprio. Con l’aiuto della Lega Coop e sfruttando le agevolazioni di legge oggi possono dire di avercela fatta, la nuova società autogestita fattura due milioni di euro l’anno ed è fuori dai guai, producendo per sé stessi e non solo per generare profitti bancari. Si tratta di quell’economia reale che da qualche decennio non conosciamo più bene, quella che guadagna ed investe per le persone e non solo per il mondo della finanza internazionale, quella che dà tanto fastidio alle banche perché non possono comprarla per spremerla come fanno con tutto e che fortunatamente non è un fenomeno limitato a questa impresa. Il processo non è stato facile, non bastava volerlo fare, solo per poter cominciare la sfida, è servito costituire una cooperativa, racimolare il denaro dove si poteva tra CFI (il fondo Cooperazione finanza Impresa), Coopfond, Confcooperative e sfruttare il diritto di prelazione concesso dalla legge alle cooperative di ex dipendenti, poi la ricerca delle commesse, la produzione inizialmente in perdita e l’attesa dei ritorni economici, fatta di denti stretti lavorando all’occorrenza anche di notte, mentre a casa le famiglie soffrivano tirando la cinghia. Una storia che qualcuno non si aspetta possa provenire dal sud e che non è l’unica, l’Italcables della vicina Caivano, è stata la prima fabbrica metalmeccanica italiana riaperta dai suoi 51 dipendenti nel 2015 usando il loro TFR dopo il fallimento avvenuto due anni prima, inoltre oggi l’Italia è al primo posto in Europa per fabbriche recuperate in questo modo e se la riscossa è iniziata al sud i due terzi del totale di queste imprese oggi si trova in Emilia, Toscana e Veneto, bilanciando il risultato e facendo riscoprire una nazione operosa ovunque, senza distinzione di provenienza o cultura, un’Italia che vince perché lavora, proprio come scritto nell’articolo uno della sua costituzione, il fenomeno, censito a livello europeo, è chiamato dei «workers buyout» ed è in continua crescita. Secondo l’EuRICSE (European Research Institute on Cooperative and Social Enterprises), l’Istituto di ricerca Europeo sulle cooperative e sulle imprese sociali, in Italia ci sarebbero ben 252 fabbriche recuperate ed il fenomeno, secondo Legacoop, sarebbe persino sottostimato perché esisterebbero molti casi di recupero al di fuori dei tradizionali canali che ne permettono il censimento corretto, come l’iscrizione a un’organizzazione di categoria o la richiesta di finanziamenti. Falliti tutti i tentativi di trattenere i grandi investitori nella nostra nazione, il recupero delle fabbriche che chiudono sembra essere diventato una vera e propria ultima spiaggia per salvaguardare il posto di lavoro e crearne persino di nuovi, come alla GBM di Perugia che su 31 licenziati in 21 hanno fatto ripartire l’azienda arrivando in due anni ad avere 28 dipendenti e che ora stanno selezionando altri quattro operai, riportando il conteggio a 32, uno in più di quando era fallita nel 2012. È un processo lento e difficile, ma è l’unico ancora vincente, tornare alla produzione reale abbandonando il modello finanziario che vede il profitto crescere al crescere dell’interesse dei mercati e non della produzione di beni materiali. Questi lavoratori producono beni che a loro volta producono benessere per loro stessi e quindi per la società in cui vivono, al contrario degli istituti di credito che producono interessi bancari dal mero valore nominale per se stessi e per far ciò deprimono la società che non ne beneficia ed, al contrario, ne soffre perché per far ciò vengono compressi costi di manodopera e qualità di prodotto producendo povertà e prodotti scadenti. L’eccezionalità di queste storie consiste quindi non nel miracolo apparente ma, più semplicemente, nell’osservazione che la società che vince è quella che ancora produce con le regole della “vecchia” economia reale e non di quella “moderna” virtuale, queste imprese hanno tutte un solo elemento in comune: la proprietà collettiva dei lavoratori che produce per i lavoratori stessi, una sorta di moderno socialismo. In tempi di individualismo sfrenato e precarizzazione dei rapporti di lavoro le fabbriche recuperate sembrano costituire un vero e proprio antidoto alla crisi contribuendo nel nostro Paese a ricostruire almeno un pezzo di quel 22% di patrimonio industriale che secondo l’Istat è andato disperso dal 2007 a oggi. Secondo i dati diffusi da EuRICSE le fabbriche senza padroni hanno una vita media di 13 anni, quando una tradizionale ne ha 13,5 ed una cooperativa 17, con un tasso di sopravvivenza dell’86%, il 70% delle quali costituito da piccole e medie imprese che impiegano dai 10 ai 49 dipendenti. Inoltre, sempre secondo EuRICSE, il recupero delle fabbriche sarebbe «una misura anti ciclica» capace cioè di invertire il ciclo economico in un modo così importante che persino la Commissione Europea ha smesso di sanzionare i finanziamenti alle cooperative di operai, che erano configurati come «aiuti di Stato», chiedendo invece a tutti i governi di «agevolare il trasferimento delle imprese ai dipendenti» e per fare ciò ha adottato come esempio la vecchia legge italiana del 1984 firmata dall’allora ministro democristiano Giovanni Marcora e solo leggermente rivisitata nel 2001. A questo punto l’unico vero neo rimasto sembrerebbe essere l’auto-sfruttamento, vale a dire che per tenere il passo con il mercato sempre più in ribasso questi nuovi padroni, pur di mantenere in vita l’impresa, potrebbero finire a lavorare più di prima e con salari decisamente più bassi, come ha affermato l’economista e sociologo Tonino Perna, parlando nella trasmissione di Radio3 “Tutta la città ne parla”, secondo il quale per evitare questo rischio ci sarebbe una sola ricetta: costruire una rete di clienti e fornitori «basata su rapporti equi e solidali», una sorta di sistema economico alternativo. Insomma per uscire dalla crisi si dovrebbe pensare ad un mercato globale che torni ad essere senza padroni, come prima della riforma bancaria e dell’avvento dei grandi mercati finanziari che fagocitano tutto e tutto deprimono generando povertà e disuguaglianza sociale.
