BERLINGUER HA LASCIATO IL PCI E LA SINISTRA SENZA EREDI
Enrico Berlinguerforse sapeva che avrebbe potuto morire sul “lavoro”. Pochi mesi prima delcomizio di Padovadel7 giugno 1984era a Bari e si sentì male. Il Partito, rigorosamente con la “P” maiuscola, convocò i migliorimedicidella città fra cuiTommaso Fiore, nipote dell’autore diUnpopolo di formiche, ilcardiologo Leonee quello che veniva considerato il principe degli analisti clinici, il dottor Scotti. Non c’è nessun giallo nella sua morte, quindi, se non la volontà dell’uomo politico di essere sempre all’altezza della propriaresponsabilitàe delsentimentoche lo accompagnava nella sua – si può dire? – missione. Enrico Berlinguer non è stato il “migliore” dei leader del Pci, il “migliore” dei comunisti. Nessun paragone conAntonio Gramscie neppure con quellastupenda intelligenzaun po’ mefistofelica diPalmiro Togliatti.È stato però il comunista più amato d’Italia. ConSandro Pertiniforse l’uomo politico più amato dagli italiani. Per molti di noi era la ragione vivente per stare nel Pci, per tanti era l’immagine della politica pura priva di sotterfugi, meschinità, arricchimenti. Dobbiamo distinguere, però, i Berlinguer che abbiamo conosciuto. Il leader nasce per predestinazione, si ricorda la frase diGian Carlo Pajettache sostenne che fin da piccolo il giovane sardo si era iscritto alla Direzione del Pci. QuandoAlessandro Natta, altro personaggio complesso, lasciò il gruppo dirigente del Pci per diventare capo della Commissione di controllo, il vecchioLuigi Longo, capo militare dellaResistenzae uomo di larghissime vedute (fu lui a rendere pubblico ildocumento di Yaltascritto da Togliatti prima di morire che indicava la distanza fra i comunisti italiani e l’Urss), aveva da tempo già scelto questo funzionario poco noto alle cronache (mentre nel Pci si fronteggiavano titani comeGiorgio AmendolaePietro Ingraoe alcuni coetanei di Berlinguer – un nome su tuttiGiorgio Napolitano– studiavano da leader), per metterlo alla guida del più fortepartito comunista occidentale. Il partito conosceva Berlinguer. Il partito, quel partito, conosceva tutti i suoi capi, anche laBase profondasapeva chi era nel giro di comando e chi stava per entrare. All’inizio forse il partito non capì bene cosa aspettarsi da questo silenziosouomo d’apparato, ma nel Pci era arrivata larivoluzione del 1968e i protagonisti di quella rivolta di fronte a quell’uomo che parlava digiustizia, che si opponeva a un mondo che sembrava perduto, furono affascinati. Diventarono berlingueriani e per questo comunisti. La televisione, che già svolgeva un grande ruolo nel selezionare i leader con le suetribune politichedisciplinate e con i moderatori coltissimi, sembrò il luogo meno adatto per Enrico, per la sua voce bassa, per quel ragionare un po’ schematico, per unlinguaggiotroppo intricato con quello di partito. Eppure a poco a poco il fenomeno Berlinguer invase i media. È stato lui il primo grandeleader mediatico. Berlinguer era untogliattiano. Diciamo pure che non ha inventato nulla. Era pessimista come tutti i comunisti del suo tempo, vedeva l’incombere di catastrofi e cataclismi politici e, del resto, fraterrorismo, ruberie e sommovimenti giovanili (cose in sé diversissime ma contemporanee) era difficile immaginare quale sarebbe stata la sorte dell’Italia. Lui propose ilcompromesso storicodopo aver visto il dramma finale diSalvador Allende. Era una idea presa dal togliattismo a cui si oppose il vecchio Longo che pensava a una alternativa allaDcpiuttosto che a una alleanza strategica. La Democrazia cristiana con cui parlava Berlinguer era quella diAldo Moroche sfidava il capo comunista a mostrare che cosa fossero quegli elementi disocialismoche diceva di voler introdurre nellasocietàe nell’economia italiana. Con Enrico il partito si fece Stato. Il rapimento Moro ne fu la dimostrazione. Rigorosi fino alla spietatezza. Non è vero, invece, che laquestione moralefu agitata solo contro gliavversari. Gli anni dellasolidarietà nazionaleavevano prodotto, nel Sud ma anche in alcune città del Nord, un certo “pasticcio” fra comunisti e altri partiti. La questione morale era anche una questione che riguardava il Pci di Enrico Berlinguer. Lui alzò un muro contro gliaffaristidi altre forze politiche ma che doveva servire a fermare gli affaristi di casa propria. Berlinguer non ruppe definitivamente con l’Urssma fece per l’autonomia del Pci quello che nessuno aveva fatto prima di lui. A Giampaolo Pansa disse che si sentiva sicuro sotto l’ombrello dellaNatoe aMosca, nella sala delle Colonne, parlò didemocraziacome nessun leader comunista aveva mai fatto. Chi si è chiesto dopo la sua morte se Berlinguer avrebbe sciolto il Pci, io credo di poter rispondere che non l’avrebbe mai fatto ma avrebbe consegnato al Paese l’idea di un comunismo italiano completamente legato alla democrazia. Troppo tempo si è perso a descrivere il Pci come modernasocialdemocraziae il suo capo, amico di leadersocialisti europei, come un uomo che aveva precorso i tempi dell’adesione all’Internazionale socialista. Berlinguer morì comunista, fedele a una idea che nella sua testa, e in quella di coloro che lo seguivano, era un tutt’uno con la democrazia. Con la morte di Enrico l’Italia scoprì di aver perso un suo gioiello. Lo pensarono anche a destra. Lo dimostrò, con la sua coraggiosa visita alla salma, ancheGiorgio Almirante. Morto Enrico, per molti morì il Pci. Forse non è così. La vicenda di Enrico Berlinguer rivela che il Pci non era quello che diceva di essere. Era un partito diviso in correnti organizzatissime e disciplinate, era un partito che vagava dalmovimentismoalliberismo, era un partito solido ma con molte crepe nella suastorica organizzazione.Enrico Berlinguer questo magma riusciva a dominarlo, via via con sempre maggiore difficoltà, ma sapendo che aveva dietro di sé milioni di persone. Era diventato ilprimusdi un gruppo dirigente eccezionale per storia e cultura. L’elenco dei nomi è impressionante: da Amendola a Ingrao, a Napolitano, aGerardo Chiaromonte, aPaolo Bufalini, aisindacalistiLuciano LamaeBruno Trentine tanti altri ancora. Tutte personalità dellacultura italiana. Quando uno di loro girava in periferia per i giovani era un continuo esame universitario per la sfida culturale insita in quel modo di interrogarli su ciò che avevano studiato. Chiaromonte per un anno intero mi telefonava ogni mese per chiedermi conto del perché, pur avendo pochi esami da fare prima della laurea, non mi decidevo a farli. Tante volte ho pranzato con Bufalini, l’uomo del rapporto con Oltretevere, latinista che ti lasciava sempre a bocca aperta. A meTonino Tatò, segretario e amico di Berlinguer, chiedeva la prima stesura di interviste e discorsi rivolti al Sud e l’idea che il capo li avrebbe letti, corretti, commentati mi emozionava sempre. Enrico era invece untotus politicus, tranne un intervento sulla futurologia, sollecitato daFerdinando Adornato, lui era immerso nella vita pubblica senza dichiarate altre simpatie culturali. Era colto ma teneva tutto per sé. La morte di Berlinguer pose il problema dellasuccessione. In altri tempi e in un partito comunista normale probabilmente si sarebbe scelto fra un vecchio esponente, e qui erano in pole position Napolitano e Lama, o il figlio del partito, cioèMassimo D’Alema. Ma Napolitano e Lama erano apparsi agli occhi del partito come due critici di Berlinguer, addirittura da destra, e il partito richiamò in servizio un altro latinista di grande cultura e generosità, Alessandro Natta. Quel Pci era, come ho detto, dominato dacorrenti rigide e multiformi. C’erano gliamendoliani, poi diventatimiglioristi,c’erano gliingraiani, e c’era il mondo che si era coagulato attorno a Berlinguer, il cosiddetto centro del partito. Poi c’erano tante personalità che apparivano cardinalizi comeAldo Tortorella, intellettuale raffinatissimo e dominatore dell’apparato, e un’alafilosovietica guidata daArmando Cossuttache era più forte di quanto apparisse perché molti filosovietici erano “in sonno”. Natta interpretò il ruolo di uomo della transizione che avrebbe portato alla ribalta un gruppo dirigente nuovo. La leggenda racconta che nel garage delleBotteghe OscureAchille Occhettoe D’Alema sottoscrissero un patto “prima tu, poi io”. Sta di fatto che immediatamente si capì che, privo dell’immagine carismatica di Enrico Berlinguer, il Pci sembrava un pugile suonato. L’89 dette il colpo finale. Molti decisero di difendere il comunismo, persino fra i miglioristi si sosteneva la tesi di un partito del comunismo democratico, ma Occhetto, uomo di straordinaria disinvoltura, propose che quel dramma collettivo mondiale diventasse la grande occasione e sciolse il Pci immaginando di trasformarlo non in un partito socialista ma in unpartito democraticoa modello statunitense. Solo D’Alema capì che quel che stava accadendo era un dramma e chiese al partito di non festeggiare la propria morte ma di accettarla come estrema necessità per portare in salvo l’esercito. Il resto è storia recente. In questa storia però nessuno dei nuovi dirigenti si rivelò erede di Berlinguer. Non lo fu Achille Occhetto, funambolo della politica, non lo è stato Massimo D’Alema, il predestinato che iniziò a giocare la partita in un campo che non era il suo, non lo è statoWalter Veltroniche scoprì improvvisamente di non essere mai stato comunista. Per carità di patria taccio suPiero FassinoePier Luigi Bersani. La caratteristica deileader post-berlinguerianiè che nessuno di loro aveva una compenetrazione comparabile con quella di Enrico Berlinguer. Se il Pci non fosse stato sciolto, il leader progressista del comunismo italiano sarebbe stato Massimo D’Alema, un po’Andropov, un po’Gorbaciov. Però è andata diversamente e Berlinguer non ha avuto eredi. Non li ha avuti sui terreni fondamentali. Dopo di lui la televisione, che lui dominava, è diventata preda di altri politici. Dopo di lui lemasse, cioè i poveri, si sono buttati a destra sospinti dalla sciatteria della sinistra. Dopo di lui lamoralitàè diventata il bambolotto di pezza di alcunipm. C’era Berlinguer invece oggi abbiamoLuigi Di Maio,Matteo Salvini,Massimo Giletti,Marco Travaglio,Pier Camillo Davigoper tacere della stagione diSilvio Berlusconi. L’ultima diga 35 anni fa è crollata a Padova e dopo la morte di Enrico sono arrivati loro. Noi comunisti del Pci abbiamo perso tanto, ma l’Italia ha perso più di noi.
