QUESTA FUGA DALL’UMANITA’ VERSO GLI ALTRI SOPRATUTTO SE SONO MIGRANTI

QUESTA FUGA DALL’UMANITA’ VERSO GLI ALTRI SOPRATUTTO SE SONO MIGRANTI

Nel 1940, nel 1942, nel 1943 mio nonno era contadino, era stato chiamato in guerra, si era sbandato, era tornato a casa dal Brennero, 23 giorni a piedi. «Se tiprendevano ti mandavano in Germania», diceva di quei tempi, ma prima della fine della guerra non poté sapere altro se non che la Germania era un posto dove succedevano cose orribili. Oggi ci sono i giornali, i libri, le fotografie, le testimonianze dirette, perché le persone, dopo aver pagato soldi e essere state torturate e stuprate, molte persone riescono a fuggire. Fuggire, non: partire. La loro è una partenza che non decidono: molti vorrebbero tornare a casa, ma essendo detenuti, in Libia, e non liberi, non possono. Vengono presi e messi su barconi quando qualcun altro, e mai loro, decide. Si calcolano tra le 600mila e 700mila le persone detenute in Libia. Detenute, non: ospitate. Detenute in stanzoni pieni di merda, con poca acqua e poco cibo, tortura (ecco cosa servono «gli Iphone nuovi»: a mantenere i contatti con la famiglia. I torturatori chiamano il papà, la mamma, la moglie e fanno sentire loro le urla mentre picchiano; le donne sono costrette a chiamare casa mentre vengono stuprate – così i famigliari si indebitano, chiedono prestiti, mandano i soldi). I migranti sono «in forze» perché soltanto quelli in forze sopravvivono alla traversata del deserto: quelli con la salute così così vengono scaricati come sacchi laceri e lasciati morire. Le ong vennero chiamate dai governi europei per aiutare le navi militari italiane nelle operazioni di salvataggio. Erano, senza se e senza ma, «i buoni». Aiutare. Salvare. Vita. C’è stato un tempo – cinque anni, sembrano millenni – in cui si organizzavano spedizioni per salvare i naufraghi. Aiutare. Salvare. Vita. È una delle propensioni naturali dell’uomo, salvare, aiutare, purtroppo non la sola, purtroppo non quella di moda. Si è ribaltata la realtà: come se il medico, il chirurgo, non fosse più «buono» perché salva una vita, ma, due anni dopo, a fare lo stesso mestiere, «cattivo», per la stessa ragione, perché salva una vita. Quando leggo che arrivano dal Bangladesh, dalla Siria, dallo Yemen, da quei posti mezzo mondo più in là, a piedi, stipati chissà dove con chissà chi, in odissee che durano anni – anni! – per venire in Europa costretti a passare per la Libia – penso che tutto attorno mi fa schifo: chiunque non si commuova per un uomo o una donna che fanno quella vita, non si commuova e faccia qualcosa affinché l’Italia accolga, rilasci visti, affinché l’Europa apra canali umanitari, tutta l’Europa, chiunque quelle vite e quelle odissee le deride, o le sottovaluta, «fa il duro», chiunque mi fa schifo. Oggi puoi leggere reportage, guardare le fotografie, leggere i libri, parlare con chi è sopravvissuto, con chi lavora con i sopravvissuti. Oggi l’atrocità la puoi soltanto negare: puoi tapparti le orecchie per non sentire, làlàlàlàlàlàlàlà, puoi raccontarti che i salvataggi «sono set cinematografici», puoi cambiare le parole, inventare «taxi del mare», puoi insomma farti il tuo film. Mi fai schifo. Molto. Se ribalti la realtà e dici che «la ong sequestra i migranti», se dici che «la Libia è un porto sicuro», a onta di ogni immagine e testimonianza, mi fai schifo. Ti stimerei di più dicessi, con un disprezzo che ti qualificherebbe, ma sarebbe onesto, «me ne frego se muoiono». Tutti sanno e dicono che in Libia ci sono i lager. E tu lasci che sia, una preghiera al cuore Immacolato di Maria, e via.