ALLARMISTI SUI MIGRANTI, PAVIDI SULLO IUS SOLI, IL J’ACCUSE DI MATTEO RENZI
Questa mattina, quando ho visto il titolo in prima di Repubblica e ho letto l’intervento di Matteo Renzi, ho pensato a quanto sia difficile per il Partito Democratico venire fuori dalla sua crisi. L’ex segretario rivendica la condotta del suo governo (salvataggi in mare, battaglia contro il trattato di Dublino, un euro in cultura per ogni euro per la difesa, fatturazione elettronica e -solo con un pindarico inciso- jobs act) e accusa invece i suoi successori, Minniti e Gentiloni. “Allarmisti sui migranti, pavidi sullo ius soli”, è il titolo di Repubblica. Renzi scrive: “Il crollo nei sondaggi (nel 2017) del Pd comincia quando si esaspera il tema arrivi nel Mediterraneo e allo stesso tempo si discute dello Ius Soli senza avere il coraggio di porre la fiducia come avevamo fatto sulle unioni civili”. Poi il giudizio, durissimo: “Geometrica manifestazione di impotenza. Allarmismo sugli sbarchi, mancanza di coraggio sui valori. Il successo di Salvini inizia là”! Se mai volesse rispondere, il buon Gentiloni potrebbe ricordare al suo ex-presidente del Consiglio, il troppo tempo impiegato nella costruzione di una legge elettorale (l’Italicum) che non ha passato i controlli di costituzionalità, l’attacco, lancia in resta, alla Cgil e alla cultura tradizionale della sinistra Italuana, la sfida insensata su una riforma raffazzonata e contraddittoria della Carta Fondamentale (“se perde il sì, mi dimetto”). Dopodiché Renzi si dimise per finta, subito si fece rieleggere segretario, lasciando le grane del governo a Gentiloni. Il Pd non ha fatto chiarezza dopo il referendum del 4 dicembre 2016, non l’ha fatta dopo la sconfitta alle politiche 2018 e nemmeno dopo l’elezione di Zingaretti. Prudente anche perché si è trovato intorno il grosso dei parlamentari e la rete degli amministratori locali in gran parte scelti da Renzi. Se volesse davvero ripartire, il gruppo dirigente del Pd dovrebbe chiedersi se sia ancora valida l’ipotesi su cui nacque quel partito nel 2007-2008: una democrazia bipolare anche per l’Italia, un partito leggero, con un leader plebiscitato e quindi forte, che si proponesse di guidare il paese nel tempo della globalizzazione capitalistica e del neo liberismo trionfante. Più “flessibilità” del lavoro ma, se possibile, anche più diritti individuali. Tuttavia, almeno dopo la crisi del 2007-2008, è apparso evidente quando fosse velleitaria una tale ipotesi. La crisi ha spaventato il ceto medio, messo in crisi il modello di democrazia americana (due partiti che si moderano cercando di conquistare il centro), ha posto sotto accusa la narrazione dei media tradizionali (contrapponendo le contro verità -spesso fake news- che correvano sul web), ha imposto un modello in cui ognuno pensa a sé e ai poveri si dice “ti difendo ma nel quadro dello Stato nazione, in quanto americano, italiano, ungherese”. Matteo Renzi propone, per la verità, una sua visione del futuro. Ora -scrive- è il tempo di combattere i populismi (riunendo in un sol fascio Lega e 5 Stelle), per ritornare alla “globalizzazione, che -precisa- non è il nostro nemico. È chiaro che ci sono disuguaglianze, da sempre, che la globalizzazione non corregge e talvolta esaspera. Ma la sinistra è tale se abbraccia il progresso, una visione mondiale, la rivoluzione tecnologica”. Qual’è invece la weltanschauung di Zingaretti? Se ritenesse inadeguato o velleitario proporsi ancora di “gestire” la globalizzazione neo-liberista, il segretario dovrebbe ancorare il partito al mondo del lavoro (oggi precario, colpevolizzato, mal pagato e con sempre meno diritti) e provare a dividere l’avversario, per isolare a sconfiggere il nemico principale, il nazionalismo che semina odio e vende illusioni. Così facendo si troverebbe niente meno che a condividere la ricerca dei Sanders e dei Corbyn, se non addirittura di Iglesias. Mentre una scelta siffatta renderebbe più ampio il fossato tra questo (molto eventuale) Pd e ciò che rivendicano il buon Renzi e il simpatico Calenda. Una prospettiva da far tremare i polsi di un segretario da sempre uomo di partito, convinto della necessità di restare ben coperto, in nome dell’unità del partito e del periodo della mediazione preventiva al vertice, retaggio del vecchio Pci.
