LA VALLE DI FERGANA, IN UZBEKISTAN, È COME UNA SPUGNA GONFIA D’ACQUA
La valle di Fergana, in Uzbekistan, è come una spugna gonfia di acqua, quella del Syr Darya, sottratta al Mare di Aral per irrigare le campagne. Chiuse, canali, un reticolo di piccoli corsi di acqua artificiali irrigano campi di cotone e risaie a perdita d’occhio. E qua e là sotto un sole implacabile si vedono persone perse nei campi, come dei naufraghi nel mare o degli sperduti nel deserto, tanto è spietato il contrasto fra le loro piccole figure e l’enorme estensione della terra, fra le loro forze e la sfida di quelle distese coltivate. Viene da pensare se anche qui i contadini cantano per sostenersi e dare un ritmo allo sforzo, se anche da qui, un giorno, scopriremo che è nato un blues del riso e del cotone, una musica della fatica, come per gli schiavi neri delle piantagioni americane. La moto va e solca questi vapori di acqua e di sudore. L’acqua catturata al fiume è esibita nei tanti piccoli ristori rudimentali di campagna che punteggiano il tracciato della A373 verso Tashkent. Tubi che zampillano, meloni ammucchiati al fresco, bambini che sbucano fuori dai canali abbronzati e lucidi di acqua come anguille, nere camere d’aria di automobile usate come ciambelle da chi non sa nuotare. L’Uzbekistan fino ad ora è un grande affresco contadino non privo di cordialità, giovani che ti fanno ok col pollice, auto che lampeggiano saluti, piccole cuoche in ciabatte nelle improvvisate cucine di campagna che cercano di intercettare materne I tuoi bisogni. Ho letto che qui l’Islam mostra un volto più chiuso di altrove, a volte pericoloso. Ma non ne ho avuto sentore. Ieri sera stavo a bermi una bella birra assieme ad altri che facevano la stessa cosa. Bice dormiva. Oggi si riparte. Salam aleikum.
