SULLA VIA DI NEYSHABOOR PER ARRIVARE A DAVARZAN E HO VISTO UN’AQUILA LEVARSI IN VOLO

A volte il caldo….a volte il vento….a volte la strada ti è nemica. Piatta, lunga, infinita, fuori di Mashad l’asfalto si discioglieva all’orizzone in un lumìo mercuriale. Senza una svolta, senza un dosso, senza alcuna cosa che desse un senso oltre l’andare, andare, andare, andare. Abbandoni fangosi qua e là, ogni tanto, in chilometriche solitudini, testimoniavano un tentativo di vita: i resti di un caravanserraglio, una capanna dimezzata dal consumo del vento, un grumo di rovine. E ad alzare lo sguardo verso nord si scorgevano i denti ringhiosi di monti roventi, l’inizio della catena degli Albortz. Una tappa maledetta, una tappa da non fare, ma da me scelta per l’eterna ricerca della traccia, della suggestione, lungo l’itinerario delle antiche carovane. Di mattina presto, a Mashaad, avevo salutato mister Hassan e sua moglie, che mi aveva preparato una buona colazione. Un tocco di qualità, ripeto, quello del Pars Hotel, attivo, ho scoperto, dal 1926. Un inglese, quello degli anziani proprietari, e una colloquialità maturati in anni in cui di lì si passava per andare in Afghanisthan e poi in India, prima che le guerre si sostituissero a fare morti e sballati più numerosi e giusti della droga. Ciao Hassan. Lui ride e mi fa: “Portati dietro pure lei”. Lei, la moglie, ride. Gli rispondo: “Lo sai che senza tua moglie questo hotel sarebbe finito”. Lei gradisce. (cronaca: 2 notti 1.400.000 real, alias 140 tuman, ovvero 14 euro in tutto).Da Mashaad mi incanalo sulla via di Neyshaboor. La scelgo, rispetto a quella più a nord e che passa per Qochan, perché lambisce il Kevir, non va a infilarsi nel catino umido del Caspio ed era la carovaniera per eccellenza. Ma dopo Neyshaboor mi incaponisco a cercare la strada che passa per Bozgan e Soltanabad piuttosto che quella che va dritta a Sabzevar. Lo so, per capirci qualcosa serve la carta. Ma insomma ho lasciato la principale per la secondaria e dopo pochi chilometri mi sono trovato in un mondo dove la povertà stava a guardarmi. Gente di terra, paesi come verruche sulla crosta del deserto. E nulla, un immenso nulla in mezzo a cui passavo in moto. Da paura.Poi il vento. Laterale da destra, fortissimo, costante, non ostacolato da nulla, carico del calore spazzolato via alla sabbia. A volte sono dovuto andare a sessanta all’ora, a volte mi sono fermato per la fatica. È stato un inferno. Così, lottando, sono arrivato infine a Davarzan e la strada ha cominciato a alzarsi un poco. Ripetuti cartelli avvisavano: attenzione, cheetah crossing. Ghepardi! Ho visto un’aquila levarsi in volo. Un inferno. Poi Mayame y e Sharhud, da dove scrivo, come due immensi molari caduti nella sabbia dalla bocca di un gigante. A Mayamey non esiste un hotel, a Sharhud sì. E nonostante tutto nel deserto quello che fa spettacolo è la vita. Sono stanchissimo. Ora dormo. Salam aleikum.