TIENANMEN 30 ANNI FA. LA MODERNIZZAZIONE ECONOMICA SI CONIUGA CON LA REPRESSIONE

Do you remember Tienanmen? A 30 anni da quella che fu il più imponente scontro di piazza in un paese socialista, pochi ricordano, di quelle drammatiche giornate, poco di più dell’immagine di un ragazzo che da semplice pedone impedisce il passaggio dei carri armati. Un’immagine eroica, ma di per sé incruenta e che soprattutto non rende l’idea di che cosa possa significare un movimento di massa in Cina. Un paese, come ebbe a dire Giulio Andreotti in quei tempi, nel quale la mobilitazione del 2% degli abitanti significa che 22 milioni di persone sono scese in piazza. Quella di Tienanmen, nei giorni che vanno dalla metà di aprile del 1989 ai primi di giugno, fu un contenitore di ogni tipo di elementi su scala industriale. Dapprima gli studenti che hanno come denominatore comune una richiesta di maggiore democrazia che va dai modelli liberali dell’occidente, come la libertà di parola, al recupero di una dialettica che non disdegna il richiamo alle parole di Mao Tse Tung. Una marea imponente che lascia sulla piazza una marea nera di rifiuti tale da scoraggiare gli interventi della igiene urbana, ma non quella dei carri armati. Poi, per l’appunto, i militari, dopo un lungo tira e molla tra i politici, tutti impegnati nel portare avanti le quattro modernizzazioni (scienza e tecnologia, agricoltura, industria, difesa nazionale). Comunque divisi tra di loro sulla risposta da dare alle piazze. Con una finale prevalenza della linea dura, che aveva come regista l’immarcescibile Deng Tsiao Ping e come principale esponente il premier Li Peng, vittoriosi contro la linea morbida e dialogante del segretario di partito Zhao Zhi Yang, che pagherà cogli arresti domiciliari a vita la sua sconfitta politica. Una prevalenza di ceto politico che si rifletteva anche nelle spaccature tra i militari, destinati alla fine, allo svolgimento di un ruolo repressivo. Sullo sfondo la fine dell’Urss con le aperture di Gorbaciov. Ma in Cina più che di una fine si trattò di un inizio che ebbe come primo successivo protagonista Jang Zemin, delfino di Deng e portavoce di quella Shangai che del decollo di un libero mercato alla cinese fu il teatro principale. Dietro il palcoscenico i morti, c’è chi dice poche centinaia o addirittura qualche decina (Wikileaks), militari compresi, e chi diverse migliaia. Forse, a voler credere fin troppo ingenuamente alla buona fede degli uni e degli altri, a causa del fatto che in piazza Tienanmen i morti furono relativamente pochi, ma nella repressione che ne seguì altrove, il numero si accrebbe notevolmente. Oggi la Cina, enormemente cresciuta anche grazie a quelle modernizzazioni cui qualcuno voleva aggiungere qualcosa, guarda a Xi, come a colui che ha saputo realizzare il grande sogno della crescita economica. Si dice, da quelle parti, che Marx aveva capito quasi tutto, ma che ci si doveva aggiungere il mercato. Ma di Tienanmen si fa farica a parlare. Magari lo si fa in termini giustificativi, come affare sporco ma necessario per un ritorno all’ordine. L’ordine, appunto, di un mercato che nell’autoritarismo di uno stato che difficilmente si riconosce nei tratti della liberaldemocrazia occidentale, trova il suo partner ideale. Se il capitalismo richiede lo sfruttamento, lo stato autoritario richiede il pugno di ferro. Niente male come accoppiata vincente.