SERGIO LEONE: UN REGISTA IMPORTANTE, MA I SUOI FILM NON SONO CAPOLAVORI

Trent’anni fa, il 30 aprile del 1989, moriva Sergio Leone, ucciso da un infarto. Aveva solo 60 anni. Dico subito, per onestà, che da bambino, poi da ragazzo, infine da giovane critico del quotidiano “l’Unità”, ho molto amato i suoi film, sono cresciuto con essi. Da un certo punto in poi, invece, diciamo attorno ai primi anni Novanta, ho maturato un parere diverso su quel cinema, prendendo le distanze da una certa adorazione acritica. Penso che Leone sia stato un cineasta importante, innovativo, titanico, capace di imporre un nuovo gusto estetico, anche molto copiato, talvolta idolatrato; e tuttavia, con l’eccezione forse di “Per un pugno di dollari”, nato senza grandi ambizioni e ricalcato su “Yojimbo . La sfida del samurai” di Kurosawa, i suoi film non mi piacciono, oggi, più granché, se non per alcune sequenze prodigiose, anche fulminanti, rimaste impresse nella memoria di tutti.Il parere è assolutamente personale, certo discutibile, ma solo per averlo espresso mi sono beccato negli anni una ragguardevole dose di insulti. Non sono ipocrita, sicché, oggi che ricorre il trentennale di quella morte dolorosa e prematura, ribadisco il mio punto di vista forse un po’ “controcorrente”, fuori dal coro osannante. Che potrei riassumere così: Leone è stato un regista che ha dato lustro al cinema italiano nel mondo, ma i suoi film, così ampollosi, formalisti, estetizzanti, spesso tirati per le lunghe, piuttosto vuoti, non sono – per me – capolavori, benché abbiano segnato un’epoca, pure un certo modo di reinventare/tradire il western. Recupero qui sotto un pezzo che scrissi nel gennaio 2009 per “il Riformista”. Rileggendolo, m’è parso ancora in sintonia con quanto vado dicendo da tempo. Pur essendo certo che in pochi, o pochissimi, saranno d’accordo.——Michele Anselmi per “Il Riformista” del 7 gennaio 2009Non fosse stato ucciso da un infarto il 30 aprile del 1989, Sergio Leone avrebbe compiuto 80 anni il 3 gennaio scorso. Si moltiplicano gli omaggi, le pubblicazioni, le rassegne, Facebook fibrilla, e tuttavia la vedova del regista, sul “Corriere della Sera”, attacca Rai e istituzioni. A sentire la signora Carla Ranalli, “nessuno fa niente per ricordare Sergio, secondo me dipende dal fatto che non era un uomo di sinistra e la sinistra non lo mai perdonato per questo, gli davano dell’uomo di destra, quasi del fascista”.Con tutto il rispetto, non reggeva allora e non regge oggi. Se c’è un cineasta che, da quasi subito, cioè già con “Per un pugno di dollari”, ha goduto di un plauso generale, oggi si direbbe bipartisan, questo è proprio Leone. Non ci fu neanche bisogno di sapere che dietro lo pseudonimo di Bob Robertson si celasse il regista del “Colosso di Rodi”, lesto a passare dai declinanti “sandaloni” ai più accattivanti “cappelloni”, perché i critici di ogni orientamento riconoscessero le qualità di quello strano Ufo uscito d’agosto, nella più completa sfiducia del produttore e degli esercenti.“Per un pugno di dollari”, che all’inizio doveva chiamarsi “Il magnifico straniero”, non era una novità assoluta. Di western all’italiana ne erano stato girati già più di una ventina, ma quello si impose quasi subito. Tutto concorse: il look del pistolero Clint Eastwood, gringo con poncho e cigarillo; la luciferina ferocia di Ramon il messicano, incarnato da Gian Maria Volonté, a sua volta doppiato da Nando Gazzolo; la musica squillante di Ennio Morricone, con tanto di fischio e chitarra col tremolo; certo la storia, copiata pari pari, quasi pantografata, da “Yojimbo. La sfida del samurai” di Akira Kurosawa.Nel recensirlo su “l’Unità”, l’esigente Aggeo Savioli ne disse un gran bene, apprezzando il respiro innovativo che si traduceva in rilettura dei canoni western con una robusta iniezione di violenza grafica, e così fecero molti critici, con le eccezioni forse di Tullio Kezich, Guido Aristarco e pochi altri. Poi successe qualcosa, i pareri sugli eventi che portarono alla rottura sono discordi, e in effetti da allora in poi “l’Unità” prese a stroncare o maltrattare i film di Leone; e la cosa andò avanti per quattro lustri, un po’ per inerzia, fino al fatidico 1984 di “C’era una volta in America”.Nel frattempo Leone aveva girato “Per qualche dollaro in più”, “Il buono, il brutto, il cattivo”, “C’era una volta il West”, “Giù la testa”, lanciato Carlo Verdone, prodotto i film di Tonino Valerii e Giuliano Montaldo. Figurarsi che in “Giù la testa”, ripreso in mano dopo aver licenziato Peter Bogdanovich, citava addirittura Mao, Borges, Goya, omaggiava i fratelli Cervi, guardando con una punta di simpatia alla bombarola Ira irlandese, ma senza prendersi troppo sul serio, alla sua maniera, rifacendosi al teatro dei Pupi siciliani più che al western para-sessantottino.Però qualcosa stava cambiando in Leone. Ancora nel 1978, a proposito del suo West, teorizzava sfiorando un po’ il ridicolo: “John Ford era un’ottimista, io sono un pessimista. I personaggi di Ford quando aprono una finestra scrutano un orizzonte pieno di speranze; i miei hanno sempre paura di beccarsi una palla in mezzo agli occhi”. Ma il western italico, spremuto come un limone dai produttori fino a farne merce avariata e dall’inizio sganciato da ogni riferimento storico in chiave di puro manierismo, non l’attraeva più.Appeso il cinturone al chiodo (però sul suo tavolo da lavoro nella villona sotto il “fungo” dell’Eur teneva una Colt 45 a canna lunga, cromata), Leone riattivò il sogno di “C’era una volta in America”, e ne fece, tra mille traversie finanziarie, girando qualcosa come 350 mila metri di pellicola in 30 settimane di riprese, la summa estetico-filosofica del suo cinema, per un totale di 218 minuti. Il film fu accolto come un capolavoro indiscutibile, fors’anche come una sorta di malinconico testamento artistico. Questioni di gusti, s’intende. A me continua ad apparire gonfio, sentimentale, dalla struttura ostentatamente ellittica, nostalgico, barocco, senile, anche un po’ banale (il passare del tempo enfatizzato dalle note di “Yesterday” dei Beatles). Continuo a preferire il più agile e meno pretenzioso “Per un pugno di dollari”.Ma ricordo ancora, come fosse oggi, lo sguardo di Leone, un misto di sospetto e indifferenza, quando gli sottoposi nel 1983, da entusiasta cronista de “l’Unità” accolto sul set romano di “C’era una volta in America”, una decina di domande messe per iscritto. L’accordo era che si sarebbe preso una settimana di tempo per rispondere, sempre per iscritto. Così fu. L’intervista, dove rispondeva per battute taglienti, alla maniera dei suoi pistoleri, ironizzando anche su una frase di Bernardo Bertolucci che gli era parsa irrispettosa (“Leone è così bravo da citare anche le cose che non conosce”), contribuì a riaprire un canale, a scongelare la storica, ventennale, diffidenza. Anzi, mosso da simpatia verso noi giovani critici del quotidiano, io e Alberto Crespi, cominciò addirittura a inviare gratis a “l’Unità” alcune articolesse sul cinema, dense e ispirate, a tratti retoriche, ma ben scritte. Lui che non era mai stato comunista si divertiva a pubblicare sul giornale del Pci. Restando, nel fondo, un democristianone doc sotto quei caftani da barbuto e venerato maestro.