IL PIACERE E IL DOLORE IN PATRIZIA VALDUGA

Il piacere sessuale e il dolore sono due condizioni che possono travolgere le persone provocando una specie di mancanza di coscienza e l’abbassamento delle protezioni psicologiche. Mettono a nudo, ed è per questo che la passione dei sensi e la passione (il patire) del dolore sono tra gli aspetti della vita umana che meno riusciamo a portare all’interno di regole e convenzioni. Patrizia Valduga con le sue poesie riesce ad elaborare piacere e dolore perché nella poesia trova rifugio. Ama la parola, da lei si fa proteggere, grazie a lei si rivela agli altri ed a se stessa, per farlo ha bisogno di mettere le parole all’interno di forme chiuse incatenandole l’una all’altro. Ha la capacità artigianale di lavorare le parole cosa che le è consentita da una ricerca sulla lingua, dal lavoro sul testo, dall’uso di endecasillabi, rime, rime baciate, quartine, terzine dantesche. Per certi versi è una poetessa postmoderna, nel senso che usa elementi poetici usuali nel passato dandogli nuova vita conducendoli nella contemporaneità. Con “Cento quartine d’amore” la Valduga ci ha dimostrato che esiste un altro luogo della virtualità erotica: la poesia. Un luogo intimo che mostra corpo, emozioni, desiderio. Un luogo dove le parole senza pudore e senza veli s’avvinghiano l’una nell’altra. Un distillato di pura sensualità: “Come sei bello quando sei eccitato! / Come hai gli occhi più neri…così neri: / due nere notti che stanno in agguato / sopra i miei sensi, sopra i miei pensieri”. Ma i sentimenti non sempre accarezzano, riscaldano, o incendiano di passione l’animo, a volte lo graffiano fino a straziarlo come succede con il dolore causato da un lutto. Dolore e lutto che la Valduga ha conosciuto per la morte del padre e che ha provato ad elaborare scrivendo in “Requiem” la sua compassione. Il suo patire assieme al padre la sofferenza che ha preceduto la morte: “Ho padre padre, patria del perdono, / mi hai dato questa vita e questo cuore, / mi hai dato tutto quello che ho di buono, / e io a te non ho dato che dolore, / e il non volermi ancora come sono…” La morte dei genitori, forse perché di colpo ci si accorge di non avere più nessuno davanti, è quella che più di tutte divide in due la vita di una persona. Costringe a un dolente rinascere. Un rinascere, quello di Patrizia Vaduga, al quale non è stato estraneo l’amore di Giovanni Raboni il maestro compagno di vita conosciuto da diciottenne. Un amore forte, intenso. Come forte, intenso e insopportabile è il dolore provocato dalla morte di Raboni che l’ha costretta di nuovo a misurare le sofferenze proprie e dell’altro; con la poesia che anche in questo caso ha dovuto ricomporre il dolore e la disperazione: “Resisti, amore mio, resisti, cuore, / fa’ conto su di me, vita su vita. // Da quanti giorni sono sola, amore! / Quanto mi manchi, vita alla mia vita!”.